Il Governo Monti compie un anno ed è tempo di un bilancio. Per quali aspetti stiamo meglio o peggio dopo dodici mesi di decisioni del Governo in carica? Le politiche economiche adottate vanno nella direzione giusta o in una controproducente? E a seguito di queste politiche staremo meglio o peggio di quanto sarebbe stato possibile con percorsi alternativi?
Un unico fatto è certo e indiscutibile: il famoso spread tra il rendimento dei Btp italiani decennali e i Bund tedeschi che tanto ci fece penare nel secondo semestre dello scorso anno si mantiene stabilmente su livelli molto inferiori a quelli raggiunti proprio nel novembre del 2011 e che rappresentarono la lettera di licenziamento del Governo di allora e del ministro dell’Economia Tremonti. Il 9 novembre 2011 lo spread raggiunse per la prima volte i 500 punti base, oggi oscilla attorno ai 350, un valore tutt’altro che contenuto e accettabile se si considera che è meno distante dai massimi di un anno fa di quanto non lo sia dai livelli dai quali aveva iniziato a decollare a fine giugno 2011. Esso ci colloca tuttavia al di fuori dell’area di maggior rischio, permettendo di pilotare la macchina pubblica con una maggiore serenità.
Tuttavia, quanto è merito del Governo la riduzione dello spread e quanto delle politiche monetarie espansive generosamente adottate dalla Banca centrale europea? Questo non lo sappiamo e non possiamo saperlo. Di certo vi è che con l’arrivo di Monti alla guida del Governo è notevolmente aumentata la credibilità internazionale del nostro Paese, peraltro messa a repentaglio dall’ultima disordinata fase del precedente Governo. Monti ha fatto esattamente quello che l’Europa, e dicendo Europa si intende Angela Merkel, desiderava che l’Italia facesse. I mercati finanziari hanno preso atto che le politiche dell’Italia hanno ora il sostegno dell’Europa e hanno smesso in conseguenza di attaccare (troppo) l’Italia.
Durerà? In fondo anche Tremonti ha avuto a lungo il sostegno dell’Europa. Nel 2009 e almeno nella prima metà del 2010 riceveva encomi pubblici dall’Unione europea e dalla Bce per aver lasciato deteriorare pochissimo i nostri conti pubblici durante la recessione. A novembre 2009 il Financial Times lo collocò al quarto posto della classifica dei migliori ministri economici dell’Unione, guidata dalla francese Christine Lagarde, e a fine anno Il Sole 24 Ore lo nominò uomo dell’economia dell’anno. Ma a un certo punto – e senza che prendesse decisioni avventate o facesse nulla di particolare e criticabile – il consenso internazionale rapidamente svanì e l’Italia fu posta nella black list dei paesi problematici, i famosi Pigs, divenuti Piigs con due i per sottolineare l’arrivo dell’Italia accanto all’Irlanda. Fu allora che lo spread fece un saltino verso l’alto anche se imparagonabile rispetto a tutto quello che è avvenuto dopo.
Che cosa era successo? Semplicemente che le politiche di Tremonti di relativo rigore in tempi di recessione, pur apprezzate, dall’Europa si rivelarono inefficaci rispetto all’esigenza di far riprendere adeguatamente la crescita, migliorare gli introiti pubblici via imponibili anziché via aliquote e tranquillizzare in tal modo i mercati finanziari sulla non pericolosità del nostro elevato e crescente debito pubblico. Le politiche erano quelle auspicate. Ma si rivelarono inefficaci. E Tremonti fu scaricato dall’Europa.
Oggi le politiche sono nuovamente quelle auspicate dall’Europa. Chi scrive è certo che saranno ancora più inefficaci, dato che l’inasprimento fiscale dell’ultimo anno e mezzo è ben più consistente e depressivo sul sistema economico di quello attuato da Tremonti nel 2010 e nella prima metà del 2011. Con una fiscalità così espropriativa e disincentivante, come abbiamo messo in evidenza nelle settimane scorse, è impossibile che l’economia italiana possa riprendere a crescere.
Vi sono dunque due scenari possibili, uno pessimo e uno solo negativo. Quello pessimo è l’avvitamento recessivo: la caduta dell’economia porta all’impossibilità di rispettare le previsioni di “risanamento” delle finanze pubbliche che induce il Governo, quello che uscirà o non uscirà dalla prossime elezioni, ad accentuare la pressione fiscale, la quale naturalmente non farà altro che peggiorare e accelerare la recessione.
Questo è il suicidio economico assistito che sta attualmente compiendo la Grecia sotto la guida attenta dell’Europa, ove ancora una volta si scrive Europa ma si deve leggere Merkel. La Grecia ha registrato nell’ultimo trimestre un’ulteriore caduta del Pil reale che è superiore al 7% su base annua. Ciò nonostante il Parlamento greco ha approvato pochi giorni fa il bilancio per il 2013, il quale prevede quasi 10 miliardi di ulteriori tagli, prevalentemente derivanti da riduzioni di salari e pensioni. Nel 2013 è previsto per la Grecia il sesto anno consecutivo di recessione con una caduta complessiva del Pil rispetto al 2007 che raggiunge il 25%. Non si ricorda caduta analoga di un Paese in tempo di pace se non andando indietro proprio alla repubblica di Weimar, fiaccata dalle riparazioni di guerra e dalle conseguenze della crisi americana del 1929. Sappiamo come andò a finire a quei tempi.
Lo scenario solo negativo è che la recessione in corso in Italia si attenui sino a svanire. Ma a quel punto il Pil smetterebbe di scendere senza tuttavia disporre di alcuna possibile spinta alla ripresa, data l’attuale esorbitante tassazione e l’assenza di riforme strutturali sulla spesa e sulla consistenza e perimetro del settore pubblico. Siamo sicuri che basterebbe a garantire la sostenibilità del debito pubblico e a continuare a tranquillizzare i mercati finanziari?
È in fondo lo stesso interrogativo che Monti si poneva nel discorso di presentazione del suo Governo alle Camere il 17 novembre 2011: “Gli investitori internazionali detengono quasi metà del nostro debito pubblico. Dobbiamo convincerli che abbiamo imboccato la strada di una riduzione graduale ma durevole del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo. Quel rapporto è oggi al medesimo livello al quale era 20 anni fa, ed è il terzo più elevato fra i paesi dell’Ocse. Per raggiungere questo obiettivo intendiamo far leva su tre pilastri: rigore di bilancio, crescita ed equità”.
Rigore di bilancio, crescita ed equità suggeriti da Monti rappresentano anche gli aspetti chiavi sui quali valutare i risultati di questo anno di Governo. Ci sono stati davvero i tre pilastri? Sull’equità, o meglio sulla sua assenza, ci siamo espressi dettagliatamente in occasione dei diversi provvedimenti fiscali. Qui basterà dire che in nessun caso il Governo ha superato il test di Aristotelesecondo il quale occorre trattare in maniera eguale gli eguali (equità orizzontale) e in maniera proporzionale i diseguali (equità verticale). Eppure l’equità si poteva ottenere a costo zero pur in provvedimenti di inasprimento della fiscalità.
Neanche la crescita c’è stata sinora. Anzi, il Governo Monti rischia di essere l’unico della Repubblica nel corso del cui mandato il Pil non sarà mai salito, neppure per un trimestre isolato. Più in generale se valutiamo il Governo sulla base dei principali parametri macroeconomici il giudizio non può che essere negativo. Lo possiamo vedere sulla base dei dati della tabella seguente che riporta le previsioni dell’Istat, stimate sulla base del suo modello econometrico, per il 2012 che sta per concludersi e per il 2013.
Fonte: Istat, Le prospettive per l’economia italiana
Notiamo in particolare che:
1) Il Pil si riduce di quasi tre punti percentuali nel biennio (-2,3 nel 2012 e -0,5 nel 2013). Nel 2009 la caduta fu ben più grave, del 5,5%, ma a provocarla fu la recessione internazionale che si manifestò in un drastico calo del nostro export. Ora invece la recessione è autoprodotta, derivando esclusivamente dal calo della domanda interna.
2) La domanda interna complessiva cala di 6 punti percentuali nel biennio, che diventano 7 se vi sommiamo anche la diminuzione del 2011. Nel 2009 si ridusse solo del 4,5%.
3) Tutte le componenti della domanda interna sono previste in riduzione in ognuno dei due anni: i consumi delle famiglie di circa quattro punti complessivamente, la spesa delle Amministrazioni pubbliche e delle Istituzioni non profit private di circa 3 punti, gli investimenti fissi lordi di ben 8 punti.
4) L’occupazione (unità di lavoro) è prevista in calo di circa due punti percentuali nel biennio. Furono quasi tre nel 2009.
5) La disoccupazione è prevista all’11,4% nel 2013, tre punti esatti sopra il valore del 2011. Nel 2009 salì solo di mezzo punto.
Considerando che non siamo di fronte alla più grande recessione internazionale dal 1929, quella si è già verificata nel 2009, ma solo di fronte a una recessione autarchica da stretta fiscale eccessiva, forse di fronte a questi numeri si dovrebbe parlare di Caporetto economica.
L’equità non c’è stata, la crescita neppure, il rigore anche troppo. Ma siamo sicuri che si tratti di un rigore utile? Ho sostenuto in diverse occasioni come questo esecutivo sembri confondere il Paese col suo settore pubblico, il settore pubblico col suo bilancio e il bilancio col suo pareggio. Tutti gli italiani sono consapevoli dell’inasprimento fiscale che vi è stato, dell’aumento di aliquote e dell’introduzione di nuovi balzelli. Ma essi hanno anche portato a maggior gettito oppure no?
Anche in questo caso i dati non invogliano all’ottimismo. La tabella sottostante riporta i conti sintetici dell’aggregato delle Amministrazioni pubbliche, quello che vale per la verifica dei parametri di Maastricht. Ogni colonna riporta la somma di quattro trimestri, quindi un intero anno, delle principali voci di entrata e spesa. Il dato nella colonna del IV trim. 2011 è dunque il totale dell’anno 2011 (i 4 trimestri terminanti nel IV) mentre il dato nella colonna del II trim. 2012, l’ultimo disponibile, è la somma del III e IV trim. del 2011 più il I e il II trim. del 2012, quindi rappresenta la somma dei 12 mesi terminanti a giugno 2012. I dati di ogni colonna sono pertanto confrontabili con quelli di ogni altra, rappresentando ognuno i valori di 12 mesi.
Fonte: elaborazioni su dati Istat, Conto economico trimestrale delle Amministrazioni Pubbliche
Come si può osservare dall’ultima colonna, che riporta le variazioni intercorse nei tre trimestri in cui ha governato l’esecutivo in carica, il gettito delle imposte dirette e dei contributi sociali risulta in lieve calo, mentre l’incremento di 7 miliardi nelle entrate corrente è interamente imputabile all’aumento delle imposte indirette (aumento Iva al 21% e inasprimento accise). Considerando anche le entrate in conto capitale, non esplicitate nella tabella, l’incremento delle entrate totali è risultato di quasi 12 miliardi.
A cosa sono serviti questi 12 miliardi di gettito in più? La risposta la fornisce la seconda parte della tabella: integralmente a coprire maggiore spesa corrente, di cui in particolare 8 miliardi di spesa per interessi in più (conseguenza dello spread). Se guardiamo tuttavia alle spese totali vediamo che esse sono aumentate solo di 6 miliardi e non di 12 come quelle correnti. Questo vuol dire che sono stati risparmiati 6 miliardi nella spesa in conto capitale (minori investimenti)., che si sono tradotti in un miglioramento equivalente nell’indebitamento, che è il disavanzo complessivo della Pa. Infatti, esso scende nei tre trimestri considerati da 65 a 59 miliardi. Ma 59 miliardi è ancora il dato di tutto il 2011 (60 miliardi) ed è quasi pari a 4 punti percentuali di Pil. Siamo ancora 18 miliardi sopra i 41 indicati solo poche settimane fa dal Governo per il 2012 nel documento di aggiornamento al Def. Non sembra di vedere i nostri conti pubblici decisamente indirizzati verso il risanamento. Risanamento e pareggio sembrano ancora far far away, come direbbero i protagonisti nel noto film di animazione Shrek (mentre la recessione è so close). In sostanza, il rigore c’è ma il gettito no.
Sorge a questo punto il dubbio di cosa significhi davvero rigore, dato che sembra il sostenimento di un costo in assenza della possibilità di ottenere un risultato. Chiamiamo in soccorso il dizionario Garzanti della lingua italiana. Voce molto ampia con diversi significati dei quali i più appropriati al nostro caso risultano rigorosità, austerità. Meglio tuttavia leggerla sino in fondo. Ecco qualcosa d’interessante: “Dal lat. rigore (m), deriv. di rigere ‘essere rigido’”. Che rigore voglia solo dire rigidità? Forse bisognerebbe spiegarlo anche agli elettori tedeschi.