Non sappiamo con esattezza quale fosse la pressione fiscale nel 1948, l’anno in cui fu promulgata la Costituzione italiana. All’epoca le statistiche di finanza pubblica non erano così precise come ora e le rilevazioni di contabilità nazionale, necessarie per rapportare le grandezze di finanza pubblica al Prodotto interno lordo, non erano ancora state avviate dall’Istat (lo saranno solo con l’anno 1950). Sappiamo però con certezza che era molto più bassa di quella attuale. All’inizio del decennio ‘60, ad esempio, risultava di poco superiore al 25%, quasi 20 punti percentuali al di sotto del valore al quale si attesterà dopo che saranno andati a regime gli aumenti impositivi introdotti con le numerose manovre finanziarie della seconda metà dello scorso anno.
Nel 1948, tuttavia, i padri costituenti scrissero nella nostra Carta alcuni principi molto importanti che trattano direttamente o hanno implicazioni sulla tassazione e la finanza pubblica:
1 – All’art. 23 che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
2 – All’art. 31 che “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”.
3 – All’art. 36 che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
4 – All’art. 47 che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”.
5 – All’art. 53 che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Riconoscendo la validità e l’importanza di questi principi non possiamo peraltro evitare di criticare il fatto che non furono date nella Costituzione indicazioni precise sulle finalità e i limiti della spesa pubblica. Non furono posti paletti o vincoli a quello che si sarebbe poi rivelato un fenomeno in continua crescita sia in assoluto che in rapporto al Pil. Questa è ovviamente una critica col senno di poi e bisogna anche dire, a giustificazione della dimenticanza dei padri costituenti, che all’epoca il peso del settore pubblico sul sistema economico era molto ridotto e non era certo immaginabile la sua successiva e apparentemente inarrestabile crescita.
Un’altra dimenticanza dei padri costituenti riguarda l’obbligo di copertura della spesa pubblica. L’art. 81 prevede infatti che ogni legge di spesa debba indicare le fonti di copertura, ma non precisa che si debba trattare di copertura economica, quindi attraverso entrate di bilancio. È stata così sufficiente in tutto questo tempo la semplice copertura finanziaria che mette sullo stesso piano tanto le entrate da bilancio quanto il ricorso al debito. Se si fosse invece posto il vincolo in Costituzione di coprire con entrate da bilancio le spese, almeno quelle correnti, quindi lasciando fuori i soli investimenti, ci saremmo evitati di dover ora affrontare il quarto debito pubblico più elevato del mondo.
Le nuove regole europee vietano ora alla finanza pubblica bilanci in disavanzo e pertanto la spesa pubblica dovrà essere interamente coperta in futuro, almeno nell’arco di ogni ciclo economico, da entrate proprie. Questa nuova regola, che è in corso di recepimento nella nostra Costituzione, oltre alle conseguenze negative sulla crescita che vengono generate dal tentativo di adempiervi in periodo di grave recessione economica non ci protegge tuttavia dallo stock di debito pubblico accumulato sinora e soprattutto non ci protegge dall’elevatissima spesa pubblica in rapporto al Pil alla quale siamo pervenuti.
Nel 2011 essa ha rappresentato metà del Pil italiano (il 49,9% per esattezza). Tuttavia sappiamo che una quota consistente del Pil ufficiale è in realtà rappresentata dal Pil sommerso, il quale non sostiene la spesa pubblica perché non contribuisce al pagamento delle imposte. Il Pil sommerso è stimato dalla Confindustria in un quinto del Pil totale, dall’Istat un po’ meno (ma il dato è relativo al 2008 ed è più che probabile che si sia accresciuto con la recessione) e dall’Eurispes e altre fonti un po’ di più. Prendendo come verosimile il dato del 20% osserviamo che la spesa pubblica grava per intero sul rimanente 80% di Pil emerso e il rapporto 50/80 è esattamente pari al 62,5%, una quota destinata a crescere con l’aumento della spesa per interessi conseguente all’aumento dei tassi.
A questo punto sorgono però due domande: (1) come può crescere/sopravvivere un sistema economico (l’unico al mondo) nel quale la spesa pubblica è grande quasi come i 2/3 del Pil (emerso)? (2) Dato che il bilancio pubblico dovrà essere portato in pareggio per i vincoli europei e i nuovi vincoli costituzionali, com’è sostenibile una pressione fiscale che dovrà garantire entrate pubbliche totali prossime ai 2/3 del Pil emerso? La mia risposta a entrambe è evidentemente negativa e devo dire di essere stupito che forze politiche, governo e organi di stampa (almeno quelli mainstream) non sembrano sinora neppure essersi poste queste domande.
Ma più ancora delle due è a mio avviso interessante una terza: siamo sicuri che la nostra Costituzione ammetta una pressione fiscale così elevata? Perché se è vero che non ha posto limiti alla spesa e ora abolisce, col cambiamento in atto, la possibilità del disavanzo, non è detto che dalla lettura congiunta dei suoi articoli che hanno implicazioni fiscali non emergano vincoli complessivi stringenti che risulterebbero in conseguenza essere stati sinora tranquillamente ignorati. Alla domanda “Siamo sicuri che il nostro sistema fiscale rispetti la Costituzione?” la mia risposta è esattamente il contrario: sono sicuro di no. Vediamo perché.
Partirei con l’art. 36, ricordato all’inizio, il quale afferma che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Questo vuol dire che la remunerazione di un lavoratore full time debba essere almeno in grado di garantirgli la soddisfazione dei bisogni fondamentali, requisito senza il quale è evidente che un’esistenza libera e dignitosa non è possibile.
La regola non si applica tuttavia solo alla retribuzione lorda pagata dal datore di lavoro ma, ovviamente, anche alla retribuzione netta percepita dal lavoratore dopo che gli sono state trattenute le imposte dirette. Vi è quindi nell’art. 36 una prescrizione implicita per il legislatore fiscale: la tassazione diretta sul lavoro non può essere così gravosa da fare in modo che la remunerazione netta scenda al di sotto del livello in grado di garantire al lavoratore l’acquisto di un paniere di beni essenziali, il cui costo è peraltro sensibilmente aggravato da imposte indirette quali Iva e accise. Purtroppo il legislatore fiscale non ha mai fatto questa verifica preliminare rispetto a ogni decisione di incremento di aliquote, verifica che richiede un attento esame dei bilanci familiari e delle necessità di consumo.
Complementare all’art. 36 è la lettura dell’art. 31 secondo il quale “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”. È evidente che la prima misura economica, quella fondamentale, è che la tassazione dei redditi tenga adeguatamente conto delle dimensioni familiari, della presenza dei figli in particolare. Anche in questo caso vi è una previsione implicita per il legislatore fiscale: la tassazione dei redditi e dei consumi deve evitare livelli eccessivi, tali da ridurre i panieri di consumo accessibili dalle famiglie al di sotto di livelli accettabili, condizione in grado di impedire ai responsabili delle famiglie “l’adempimento dei compiti relativi”.
Ha mai compiuto il legislatore fiscale questo tipo di verifiche prima di scegliere aliquote e detrazioni? Non mi risulta. Sono adeguate le detrazioni d’imposta per i figli, stabilite in sede Irpef, rispetto ai costi necessari per il mantenimento dei figli? Non scherziamo. Si tratta di poche centinaia di euro all’anno che esentano di fatto dal prelievo una cifra del tutto inadeguata. Le famiglie che ritengono fondamentali i figli debbono quindi farsene carico quasi esclusivamente comprimendo i consumi dei coniugi rispetto a famiglie senza figli con pari livello di reddito, senza alcun sostanziale aiuto, né comprensione da parte del sistema fiscale.
E anche in riferimento all’art. 47, “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”, c’è parecchio da dire. È evidente che per incoraggiare il risparmio non si può porre un’aliquota fiscale troppo elevata sui rendimenti conseguiti dai risparmiatori. Ora è vero che l’aliquota principale, posta al 20% (tranne che per i titoli pubblici), non sembra in prima analisi particolarmente elevata. Tuttavia occorre considerare che essa si applica ai rendimenti nominali, non a quelli reali, depurati dalla dinamica inflattiva.
A marzo, ad esempio, l’inflazione al consumo risultava su base annua del 3,3% e quella calcolata sul carrello della spesa, ciò sui beni a elevata frequenza di consumo, del 4,6%. Un risparmiatore che intendesse conservare il potere d’acquisto dei suoi risparmi in termini di carrello della spesa dovrebbe pertanto conseguire un rendimento annuo lordo dei suoi risparmi del 5,75% (che dopo la ritenuta fiscale del 20% si riduce appunto al 4,6%). Francamente improbabile. Per rendimenti inferiori (riferiti ad attività finanziarie diverse dai titoli di stato) la tassazione contribuisce a depauperare il valore reale del risparmio e questo non può certo essere considerato un incentivo al medesimo.
Ma quello sul quale vi è più da dire è sicuramente l’art. 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Cosa vuol dire esattamente capacità contributiva? Semplicemente il fatto di disporre di risorse economiche sufficienti a pagare le imposte che ci vengono richieste oppure, in maniera più restrittiva, il fatto di disporre di risorse economiche eccedenti le necessità di base individuali e della propria famiglia? Deve intendersi che tutta la capacità economica, quindi tutta la capacità di spesa (inclusa la capacità di spesa derivante da alienazione del patrimonio), sia tale da rappresentare capacità contributiva, oppure solo quella parte che eccede i mezzi economici indispensabili per garantire al cittadino e alla sua famiglia un’esistenza libera dai bisogni fondamentali e pertanto un’esistenza dignitosa?
È evidente che la risposta non può che essere la seconda. Quindi solo le imposte che, complessivamente intese, determinino un carico fiscale totale sul contribuente tale da non intaccare la capacità di spesa per i consumi essenziali suoi e dei familiari di cui deve farsi carico sono conformi all’art. 53 della Costituzione. Se eccedono tale livello sono invece da considerarsi incoerenti col dettato dell’art. 53 e quindi incostituzionali.
È evidente che per accertare che il debito fiscale annuale complessivo di ogni contribuente sia sostenibile e tale da non intaccare i consumi e il livello di vita essenziale dei cittadini, l’amministrazione dovrebbe effettuare delle simulazioni accurate per tipologia di contribuente sulla base dei bilanci familiari e il legislatore fiscale dovrebbe basarsi su di essi quando valuta di modificare i parametri delle imposte. Purtroppo esercizi di questo tipo non sono mai stati fatti e legislatore e amministrazione fiscale non si sono mai interessati degli effetti complessivi in termini di reddito residuo (al netto di tutte le imposte) prodotti dall’insieme della legislazione fiscale su ogni tipologia di contribuente. In questo modo si sono comportati come un monarca assoluto che tassa i suoi sudditi.
Certamente per molti contribuenti anche gli attuali elevati carichi fiscali restano sostenibili ma, considerando che la pressione fiscale è destinata a salire oltre il 55% del Pil emerso, è altrettanto evidente che i carichi fiscali attuali e previsti non sono sostenibili per la totalità dei contribuenti e con grande probabilità neppure per la maggior parte di essi. Le dimensioni del nostro settore pubblico sono esorbitanti e richiedono di essere alimentate con livelli di tassazione ormai divenuti incompatibili, data la perdurante recessione economica che si è innestata in una fase di preesistente sostanziale assenza di crescita, col mantenimento di normali condizioni di vita di molte categorie di contribuenti.
A essi non resta che una triplice alternativa: (1) emigrare, ma solo una minoranza di giovani qualificati e poliglotti può farlo; (2) evadere le imposte; (3) accettare di abbassare il proprio (e dei propri figli) standard di vita al di sotto di quello “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera (dai bisogni fondamentali) e dignitosa”. Ve ne è in realtà anche una quarta, ben più difficile perché richiede un’ampia azione collettiva: imporre alla classe politica di attuare un ridimensionamento drastico del settore pubblico, sufficiente a fare in modo che dopo di esso bastino per finanziarlo imposte ragionevoli e compatibili col dettato della Costituzione.
Il ridimensionamento dello Stato si attua attraverso tre azioni: (1) privatizzare immobili pubblici non utilizzati o non necessari per ridurre il debito pubblico; (2) privatizzare (tutte) le imprese pubbliche (che operano sul mercato e recuperano i costi di produzione coi prezzi) per ridurre l’intervento pubblico che interferisce col mercato; (3) rendere autonome (senza privatizzarle) le organizzazioni pubbliche che producono servizi a domanda individuale non di mercato e iniziare a finanziarle in funzione della quantità e qualità dei servizi che producono e non della quantità dei fattori produttivi (personale e beni e servizi intermedi) che consumano.
Queste azioni sono a mio avviso il minimo necessario, non so se sufficiente, per far cambiar marcia al nostro sistema economico e provare a interromperne il lungo declino.