Accingendomi a scrivere per Il Sussidiario un articolo sulla nuova imposta sugli immobili, l’Imu, un libro mi è caduto dall’alto degli scaffali e si è aperto sul seguente testo: “I cittadini debbono contribuire alle spese dello Stato quanto più strettamente possibile in proporzione alle loro capacità, cioè in proporzione al reddito che essi riescono a conseguire sotto la protezione dello Stato. La spesa pubblica per i cittadini è infatti come la spesa di amministrazione per i comproprietari di una grande proprietà, i quali sono tutti obbligati a contribuire in proporzione ai loro rispettivi interessi nella proprietà […]. L’imposta che ogni cittadino è tenuto a pagare deve inoltre essere certa e non arbitraria. La somma dovuta, il tempo e le modalità del pagamento debbono essere chiari e semplici per il contribuente e per chiunque altro. Quando non è così, ogni contribuente rischia di essere sottoposto all’arbitrio dell’esattore, il quale può aggravare l’onere dell’imposta […].
L’incertezza del sistema fiscale incoraggia l’insolenza e favorisce la corruzione di una categoria di persone per natura impopolari anche quando non sono né insolenti, né corrotte. La certezza di ciò che ciascuno deve pagare è, nella tassazione, una questione così importante che nell’esperienza delle nazioni neppure un alto grado di ineguaglianza è così grave come un piccolissimo grado di incertezza. Ogni imposta deve essere riscossa nel tempo o nel modo in cui è più probabile che sia comodo pagarla per il contribuente, […] cioè quando è più probabile che egli abbia i mezzi per pagarla.
Ogni imposta deve inoltre essere disegnata in modo tale da sottrarre al cittadino quanto meno risorse possibili oltre a quelle che entrano nelle casse dello Stato. Un’imposta può sottrarre o tenere fuori dalle tasche dei cittadini molto più di quanto essa faccia entrare nelle casse pubbliche, nei quattro modi seguenti. In primo luogo l’accertamento dell’imposta può richiedere un gran numero di funzionari, i cui stipendi possono assorbire la maggior parte del gettito dell’imposta e le cui malversazioni possono imporre ai cittadini un’altra imposta addizionale. In secondo luogo, l’imposta può ostacolare l’operosità dei cittadini e scoraggiarli dal dedicarsi a certe attività economiche che potrebbero offrire mantenimento e occupazione a un gran numero di persone […]. In terzo luogo, con le multe e con le altre pene in cui incorrono gli sfortunati che cercano di evadere senza riuscirci, essa può spesso rovinarli e quindi porre fine al vantaggio che la comunità avrebbe potuto ricevere dall’impiego delle loro risorse economiche.
Un’imposta non assennata offre una grande tentazione all’evasione; ma le pene per essa aumentano in proporzione alla tentazione. La legge, quindi, contrariamente a tutti i principi ordinari di giustizia, prima crea la tentazione e poi punisce coloro che vi cedono e inoltre in genere inasprisce la punizione in proporzione alla tentazione a commettere il reato. In quarto luogo, assoggettando i cittadini ai frequenti e odiosi controlli dei funzionari fiscali, l’imposta può dar luogo a fastidi non necessari, alla vessazione e all’oppressione; e sebbene, a rigore di termini, la vessazione non sia una spesa, essa è certamente equivalente a una spesa che chiunque sarebbe ben disposto a pagare pur di evitarla. In questi quattro modi le imposte sono spesso molto più gravose per il cittadino di quanto siano utili al governo”.
Chi ha scritto queste cose? Un acerrimo nemico dell’Agenzie delle entrate, di Equitalia e di tutti i governi “all tax”? Se continuiamo a leggere scopriamo di no perché egli così continua:
“La giustizia e l’utilità evidenti delle massime precedenti le hanno raccomandate, in misura maggiore o minore, all’attenzione di tutte le nazioni. Tutte le nazioni hanno cercato, secondo il loro miglior giudizio, di rendere le loro imposte eque quanto esse potevano; di renderle certe e comode per il contribuente, sia riguardo al tempo che al modo del pagamento, e, in rapporto al gettito che esse danno al governo, di renderle poco gravose per i cittadini”.
È evidente che si tratta di uno scrittore di fantascienza, qualcuno che ha immaginato una sorta di paradiso terrestre del contribuente (ben diverso dai paradisi fiscali). Chi potrebbe essere? H.G. Wells? Isaac Asimov? Ray Bradbury? In realtà questo scrittore di fantascienza fiscale (dal nostro punto di vista di contribuenti italiani) si chiamava Adam Smith, padre della moderna scienza economica e sostenitore del liberalismo economico, e scriveva i principi a cui lo Stato deve attenersi per un fisco equo e non vessatorio nel 1776, oltre 230 anni prima di Mario Monti, Giulio Tremonti e Attilio Befera. I brani precedenti sono infatti tratti da La ricchezza delle nazioni, libro quinto, cap. II, parte II e sono stati soli lievemente adattati in alcuni termini al fine di rendere il testo attuale (ad esempio ho sostituito sudditi, dato che non siamo più abituati a considerarci tali pur continuando a esserlo, con cittadini e sovrano con governo).
Alla luce di questo testo di Adam Smith, come dobbiamo allora interpretare i recenti richiami del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio al dovere di pagare le imposte? Monti: “Inaccettabile che la politica inciti a non pagare le tasse”. Napolitano: “Chi evade le tasse non merita di essere italiano”. Certo è la legge che ci impone di pagare le tasse ed è giusto che i cittadini rispettino la legge. Ma la legge può stabilire qualsiasi cosa ed è sempre giusto che i cittadini la rispettino? Oppure la legge è anch’essa soggetta a certi doveri, ad esempio a rispettare principi generali di equità e ragionevolezza, quali quelli illustrati in tema fiscale quasi due secoli e mezzo fa da Adam Smith?
In nostro soccorso, a conferma del sospetto che la legge non può essere esentata dalla sua sottoposizione a filtri di valutazione che abbiano a che vedere con l’equità e la ragionevolezza, viene un altro autore: “Sembra che giustizia e ingiustizia siano intese in più significati, ma essendo questi significati assai vicini tra loro a causa del medesimo nome, essi sfuggono e non sono evidenti come per le cose lontane tra loro. […] Vediamo dunque in quanti sensi si dice che uno è ingiusto. È ritenuto ingiusto sia chi trasgredisce la legge, sia chi desidera più del dovuto e non rispetta l’equità; è in conseguenza evidente che è giusto sia chi rispetta la legge, sia che chi rispetta l’equità. Pertanto è giusto sia ciò che è legale sia ciò che è equo, è ingiusto sia ciò che è illegale sia ciò che è iniquo” []. Che cosa si intenda per equità lo stesso scrittore di fantascienza lo scrive in un altro testo: “Si pensa che il giusto sia eguaglianza, e lo è, ma non per tutti, bensì per gli uguali; anche l’ineguaglianza si pensa sia giusta, e lo è, in realtà, ma non per tutti, bensì per i diseguali” [].
L’ultima citazione introduce i due concetti, fondamentali per il disegno delle leggi e dei sistemi impositivi, dell’equità orizzontale e dell’equità verticale. La prima richiede di trattare i maniera eguale coloro che si trovano in una condizione simile, ad esempio hanno lo stesso reddito da lavoro e identici carichi familiari, e nel trattare in maniera proporzionale alle differenze coloro che si trovano in condizioni differenti. La prima citazione lascia invece spazio all’ipotesi che una legge possa non essere equa, che non tratti i soggetti obbligati secondo i due principi di equità.
[1] Aristotele, Etica Nicomachea, 1130b, 25 ss.
[2] Aristotele, Politica, 1280a.
Rispettare la legge è giusto e doveroso, ma la legge ha il dovere di essere equa. È quindi necessario ricordare alla nostre supreme Autorità che giustizia come legalità e giustizia come equità sono due requisiti egualmente necessari per un sistema di regole, non ne basta uno solo. Una legge non equa genera oneri ingiusti ai cittadini che la rispettano e spesso vantaggi ingiusti ad altri cittadini o allo Stato. Un sistema di leggi non eque, tra cui in sistema fiscale non equo, crea incentivo a un inadempimento crescente da parte dei cittadini e compromette col tempo l’efficacia e l’attendibilità delle leggi, come una moneta aurea progressivamente grattata nel suo effettivo contenuto metallico e di cui i detentori vogliono disfarsi il più rapidamente possibile. Una legge non fondata sull’equità è come un palazzo costruito sulla sabbia. Può anche resistere per un po’, ma prima o poi crolla trascinando con sé ciò che invece avrebbe dovuto sorreggere.
È equo un sistema legale che impone tempi precisi per il pagamento al fisco delle imposte dovute da cittadini e imprese e lascia alla discrezionalità dello Stato acquirente i tempi di pagamento ai fornitori? È equo un sistema fiscale che mette in serie difficoltà molti contribuenti e ne spinge taluni alla depressione e a gesti inconsulti? È equo un sistema della riscossione che mette all’asta per poche centinaia di tasse non pagate la casa di anziani malati e probabilmente non più in grado di comprendere e adempiere alla richieste del fisco? Si tratta ovviamente di domande retoriche.
Comprendo che Adam Smith sia un autore troppo recente per aver dato tempo ai disegnatori delle imposte il tempo di leggerlo, così presi a scrivere leggi fiscali incomprensibili a loro stessi e logorroiche istruzioni per il contribuente, ma Aristotele è un po’ più distante, circa ventisei secoli, e i concetti di giustizia occupano pochi paragrafi dell’Etica Nicomachea e i due concetti di equità appena poche righe della Politica. Qualcuno poteva anche avvisarli che era il caso di darvi una lettura.
Parafrasando il Presidente Lincoln, possiamo anche dire che una tassa iniqua può ingannare tutti i contribuenti per qualche tempo e qualche contribuente per sempre, ma non può ingannare tutti i contribuenti per sempre.
(1 – continua)