“Per il premier Mario Monti «si riduce il peso dello Stato», a partire proprio dai suoi diretti ambiti di competenza ovvero Palazzo Chigi e ministero dell’Economia” sottolineava Il Sole 24 Ore del 16 giugno in relazione alle decisioni prese il giorno prima dal Consiglio dei Ministri.
Riforme all’italiana: meno Stato più Cassa Depositi e il totale non cambia mai
Sarà pur vero che si riduce il peso dello Stato, tuttavia ci chiediamo cosa cambi nella sostanza se il posto lasciato libero non viene preso dal mercato e dalle decisioni volontarie degli operatori economici che gli sono proprie, bensì dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp). Meno Stato più Cassa depositi, potrebbe essere in sintesi lo slogan che riassume il recente provvedimento del governo, tanto che qualche scettico irriducibile ha iniziato a definirlo come “il decreto sviluppo della Cassa Depositi” più che il “decreto sviluppo dell’Italia”.
Ma vediamo in sintesi che cosa prevede, usando le parole de Il Corriere della Sera: “Il governo rimette in moto il meccanismo delle dismissioni: […] il Consiglio dei ministri ha deciso la cessione di Fintecna, Sace e Simest, oggi controllate dal Tesoro, alla Cassa Depositi e Prestiti, che è fuori dal perimetro della Pubblica amministrazione. La Cassa verserà i dieci miliardi allo Stato, ma il suo apporto al piano delle dismissioni non si limiterà all’acquisto delle partecipate del Tesoro. L’istituto creerà infatti due fondi aggiuntivi per acquistare gli immobili e le partecipazioni degli enti locali nelle società che svolgono servizio pubblico locale. Che si affiancheranno a un altro fondo, varato ieri direttamente dal governo, per la privatizzazione degli immobili dello Stato e degli enti locali”.
In sostanza, il Tesoro trasferisce per intero tre società controllate alla Cdp, la quale a sua volta provvede a istituire due fondi attraverso i quali acquisire proprietà immobiliari e mobiliari degli enti territoriali. Qual è la ratio di questi passaggi proprietari che si verificano tra soggetti tutti pubblici? Sino a che gli asset patrimoniali oggetto di queste operazioni non saranno effettivamente ceduti in favore di soggetti privati si tratta di un semplice maquillage contabile.
Infatti, poiché la Cassa depositi fu trasformata da Tremonti, proprio per consentire operazioni di questo tipo, in società per azioni, essa è da un punto di vista giuridico un soggetto privato e pertanto il suo bilancio non è consolidato nei conti delle amministrazioni pubbliche italiane. Questo regime fa sì che ogni pagamento da Cdp ad amministrazioni pubbliche per l’acquisizione di attività patrimoniali vada automaticamente a ridurre il fabbisogno annuo del settore pubblico e il corrispondente incremento nello stock del debito, in maniera equivalente alla cessione di asset in favore di soggetti effettivamente e non solo giuridicamente privati.
Che dire? Può darsi si tratti solo di un passaggio intermedio, in vista di privatizzazioni effettive. Ma in tal caso perché non scriverlo nero su bianco nel provvedimento? Invece in questo modo Cdp riceve partecipazioni rilevanti senza nessuna istruzione scritta su cosa farne da parte di chi gliele cede e che è anche il suo azionista di controllo. Siamo sicuri che questa soluzione sia accettabile? Queste partecipazioni saranno gestite meglio dopo il passaggio di consegne? E maggiormente nell’interesse pubblico, visto che saranno più distanti da chi ha la responsabilità di decidere le politiche? Cavour già ai tempi del Regno di Sardegna riteneva che le aziende autonome dovessero essere incardinate nei ministeri ai fini di un loro indirizzo più efficiente verso finalità collettive.
Chi scrive ritiene che sia meglio affidarle al mercato, tuttavia se si sceglie di non farlo non è detto che un controllo pubblico indiretto sia migliore di uno diretto. Un esempio per tutti: una delle società in corso di trasferimento a Cdp, Fintecna che è l’erede di ciò che resta della liquidazione dell’Iri, ha una partecipazione quasi totalitaria in Fincantieri. Dopo l’attuazione del provvedimento della scorsa settimana il controllo di Fincantieri da parte del Ministero dell’Economia risulterà filtrato dai due livelli rappresentati da Cdp e da Fintecna. Chi deciderà le strategie di Fincantieri? Cdp, che è un’istituzione finanziaria, dispone delle necessarie competenze per gestire partecipazioni industriali? Ricordiamoci che nessuna banca “normale” potrebbe detenere partecipazioni industriali di controllo come invece avviene per Cdp, istituzione ibrida e ircocervo economico dello Stato. Siamo inoltre sicuri dell’opportunità e correttezza di utilizzare la raccolta postale della Cdp, che è raccolta quasi totalmente a vista, non a termine come invece i titoli di Stato, e per di più avente come controparte risparmiatori generalmente avversi al rischio e non particolarmente dotati di competenza finanziaria (gli anziani che riscuotono alla Posta la pensione e vi lasciano i risparmi), per finanziare partecipazioni a lungo termine in aziende di Stato?
Come ricordava ancora il Corriere della Sera, “l’operazione più rilevante dal punto di vista finanziario, tuttavia, è il parcheggio delle società del Tesoro nella Cassa depositi. […] Le tre società che saranno conferite porteranno in dote alla Cassa, controllata dal Tesoro per il 70% e dalle fondazioni bancarie per il 30%, utili (solo Sace, che assicura i crediti all’export, ne ha fatti per 2,3 miliardi, e ha appena restituito al Tesoro 3,5 miliardi di capitale), liquidità (ne hanno in abbondanza sia Fintecna che Sace), e pochi debiti. […] Alla Cassa, che è già proprietaria del 26% dell’Eni e del 29,9% di Terna, il governo ha appena trasferito anche il 30% della Snam detenuto dall’Eni, ma per il momento non sono in programma altri conferimenti di quote Eni, Enel né di Finmeccanica, come si sussurra da tempo”.
In sostanza, già prima degli ultimi provvedimenti Cdp era, tra le altre innumerevoli cose, anche una grande holding di partecipazioni pubbliche e la decisione del governo tecnico di conferire nelle scorse settimane Snam Rete Gas e ora anche Fintecna, Sace e Simest la ingrandisce e rafforza notevolmente. È evidente che se il governo si trovasse ancora a dover far cassa rapidamente per esigenze di finanza pubblica la tentazione di conferire a Cdp anche le residue partecipazioni dirette del Tesoro sarebbe forte. Ma a questo punto ci troveremmo di fronte non a una nuova Iri, che questo già si verifica ora, bensì a qualcosa di paragonabile alla vecchia Iri, con Bancoposta-Cdp nel ruolo delle vecchie banche d’interesse nazionale (le Bin), più l’Eni più l’Enel. Almeno ai tempi delle vecchie e non rimpiante partecipazioni statali gli enti di gestione erano rigidamente separati e le banche controllate non raccoglievano risparmi pari a un quinto del Pil.
Privatizzare sul serio per rilanciare sul serio la crescita
È evidente che non si può classificare come privatizzazione il passaggio di proprietà da un soggetto pubblico a un differente soggetto pubblico, come si sta verificando nei casi sopra ricordati. E infatti gli organi di stampa hanno sostituto il termine privatizzazione, che sarebbe risultato improprio, con quello più neutro di dismissione. Peccato che a ogni dismissione pubblica corrisponda in Italia una equivalente acquisizione pubblica. Con un’aggravante non indifferente: sulla base dell’ultimo provvedimento del governo Monti, a fronte di differenti enti chiamati a dismettere (Stato ed enti territoriali) vi sarebbe un acquirente unico, la Cdp, con una crescente concentrazione degli asset pubblici in capo a un unico soggetto. Ciò che era pubblico è destinato a restare pubblico, ma anche a divenire monopolizzato.
È invece possibile privatizzare sul serio, sia immobili pubblici che imprese a controllo pubblico. Le due tipologie di asset non sono tuttavia sullo stesso piano: privatizzare immobili può portare a introiti più consistenti, ma ha il difetto di non ridurre il peso dello Stato sul sistema economico, perché non diminuisce il ruolo dello “Stato produttore”. Per ridurre il debito è dunque necessario privatizzare anche gli immobili, ma per ridurre il ruolo dello Stato e accrescere quello del mercato è necessario anche cedere imprese pubbliche. E con cessione di imprese si intende la rinuncia al controllo pubblico, non la semplice vendita di quote di minoranza che non sarebbe stata chiamata privatizzazione ai tempi di Margaret Thatcher.
È vero che la cessione di asset non ha nel breve periodo effetti consistenti sullo stock del debito, che nel frattempo continua a crescere, ma può avere un ruolo cruciale nel diminuire il fabbisogno annuale, sostituendosi alle troppe e troppo depressive manovre di incremento delle imposte che abbiamo visto negli ultimi dodici mesi. Non si dica inoltre che non è opportuno privatizzare perché i proventi delle privatizzazioni sarebbero limitati rispetto alle dimensioni del debito. Per i proventi diretti questo è vero, ma nessuno ricorda i possibili proventi indiretti: il risparmio sulla spesa per interessi derivante dal calo dello spread che potremmo conquistarci sul campo dimostrando di essere in grado di far ritrarre sensibilmente lo Stato dall’eccesso di intervento nel sistema economico, da quelli che altrove sono gli spazi tipici del mercato. Alla fine di un serio processo la minor spesa per interessi, come d’altra parte già avvenuto negli anni ‘90, sarebbe un multiplo dei proventi diretti da privatizzazioni. Questo effetto vale per la cessione del controllo di imprese, non per quella degli immobili.
E bisogna infine sfatare l’argomento del carattere strategico delle imprese pubbliche. Le cosiddette imprese strategiche sono in realtà solo quelle essenziali al nostro sistema economico. È essenziale che rimangano in Italia? Che rimangano anche a proprietà italiana? O che rimangano a proprietà italiana pubblica? Ad avviso di chi scrive basta la prima condizione: sono imprese essenziali per il sistema economico, ma è indifferente quale privato le possegga, italiano o estero, mentre è inopportuno, dati i precedenti storici nazionali, che sia il settore pubblico.
Le imprese a rete sono quindi tutte privatizzabili senza rischi, perché nessun acquirente straniero potrebbe mai sradicare le reti dal nostro suolo per trasferirle nel suo Paese. L’unico rischio effettivo che si corre è l’arrivo di acquirenti esteri che ai nostri politici (tradizionali) non piacciono non tanto perché essi non parlano inglese, quanto perché gli investitori stranieri non sono in grado di parlare e capire il politichese e quindi non vi sarebbe la possibilità di avviare scambi di favori.