Possiamo farcela da soli, senza chiedere aiuto al Fondo europeo per la stabilità finanziaria, senza sottoporci alla vigilanza dell’Eurogruppo e rinunciando allo scudo che ci offre la Bce? È la domanda alla quale risponde positivamente il Professor Francesco Giavazzi in un suo editoriale: “Ce la possiamo fare da soli perché la nostra situazione è diversa da quella spagnola: non abbiamo avuto una bolla immobiliare e le nostre banche non sono zeppe di mutui andati a male; il debito pubblico è elevato (123% del Pil), ma i conti dello Stato al netto degli interessi sono attivi (+3,6% nel 2012), e soprattutto non abbiamo accumulato un ingente debito estero spendendo per oltre un decennio il 10% più di quanto veniva prodotto. La Spagna non ha alternative, noi sì”.



Vi sono molte buone ragioni per cercare di farcela da soli, ma tre sopravanzano tutte le altre: (1) nessun aiuto è totalmente altruista e disinteressato; (2) nessun aiuto è privo di condizioni e restrizioni per chi viene aiutato; e soprattutto, (3) nessun aiuto ha la garanzia che funzionerà! Molto meglio provare quindi a far da soli che aspettare che si convincano le istituzioni europee. Per far da soli bisogna tuttavia disporre di un governo che sappia dove andare a parare. Siamo sicuri di averlo? I dati statistici pubblicati in questi giorni direbbero di no.



L’Italia si salva se riprende rapidamente a crescere, e quindi se smette dapprima di decrescere. Questa è l’affermazione mancante dell’editoriale di Giavazzi. Ma l’Istat ci dice che il Pil è diminuito del 2,5% nel secondo trimestre 2012 rispetto allo stesso trimestre 2011. È il quarto trimestre consecutivo di riduzione e anche nell’ipotesi che la discesa si arresti nei prossimi due trimestri e il Pil rimanga immobile, la variazione acquisita per l’intero anno è già un -1,9%. A questo punto la previsione di un -2% per l’intero 2012 è ottimistica, quella del -2,5% realistica, mentre valori prossimi al -3% non risultano inverosimili. Non si può inoltre trascurare che col dato del secondo trimestre il Pil risulta aver azzerato tutto il limitato recupero che aveva realizzato dopo la grande caduta del 2008-09. Ora il Pil è nuovamente a quei livelli che poi sono gli stessi dell’inizio del decennio 2000. Più di 12 anni senza crescita.



Cosa dice e cosa fa il governo di fronte a questi dati disastrosi? Apparentemente nulla. Eppure essi fanno prevedere una riduzione del Pil almeno doppia rispetto al -1,2% che il governo ha indicato nel Def, il Documento di economia e finanza, solo lo scorso 18 aprile. Inoltre, la caduta del Pil non è una calamità naturale e a differenza del 2008-09 non è determinata prevalentemente dalla crisi internazionale. Le manovre di finanza pubblica del secondo semestre 2011 e, in particolare quella Monti di dicembre, non sono estranee a questa accentuazione essendo state prevalentemente basate su incrementi di tassazione. Forse il governo, oltre a spiegare perché non ha previsto una caduta del Pil così consistente dovrebbe anche ricalcolare per l’intero anno le previsione delle entrate, spese e saldi di finanza pubblica perché è evidente che sbagliando la previsione del Pil anch’esse non possono essere più considerate corrette.

Invece il Ministero dell’Economia si limita ad autocompiacersi per le buone entrate tributarie del primo semestre, che, grazie alle manovre, sono state ottenute nonostante la recessione che esse, se non hanno provocato, hanno almeno contribuito ad accentuare: “Nel periodo gennaio-giugno 2012 le entrate tributarie erariali si sono attestate a 191.180 milioni di euro, mostrando una crescita del 4,3% (+7.963 milioni di euro) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e recuperando 1,8 punti percentuali rispetto al mese di maggio. Ai fini di un confronto omogeneo, al netto dell’imposta sostitutiva una tantum sul leasing immobiliare registrata nel mese di aprile 2011, la crescita tendenziale è ancora più sostenuta e pari al 5,1% […]. Nel complesso, pur in presenza di una congiuntura fortemente negativa, la dinamica delle entrate tributarie registra una tendenza alla crescita a ritmi superiori rispetto all’analogo periodo dello scorso anno per effetto delle misure correttive varate a partire dalla seconda metà del 2011. In particolare, alla variazione delle entrate che affluiscono al bilancio dello Stato, ha contribuito il gettito di spettanza erariale della prima rata di acconto dell’Imu (pari a 3.934 milioni di euro) che è risultato in linea con le previsioni”.

Purtroppo l’unica cosa rimasta in Italia che è in grado di crescere sono le tasse. Il Ministero dell’Economia se ne compiace, noi no. Anche perché siamo consapevoli che si tratta di effetti effimeri, di una crescita del gettito non sostenibile. Gli incrementi di cui va fiero il Mef son tutti dovuti ai nuovi tributi o all’incremento di vecchi tributi stabiliti con le manovre, dalla nuova Imu all’incrementodell’imposta sostitutiva su ritenute, interessi e altri redditi di capitale (+1.545 milioni di euro, pari a +46,7%) influenzata […] in particolare dalle modifiche apportate al regime di tassazione delle rendite finanziarie”, alla crescita significativa che ha interessato “l’imposta di bollo che registra un incremento del 136,3% (+2.066 milioni di euro) dovuto alle modifiche normative apportate con i provvedimenti della seconda metà del 2011 alle tariffe di bollo applicabili su conti correnti, strumenti di pagamento, titoli e prodotti finanziari”, alla crescita del gettito “dell’imposta di fabbricazione sugli oli minerali (+24,2% pari a +2.136 milioni di euro) sostenuto dagli aumenti delle aliquote di accisa disposti dalle recenti manovre”.

Risultano al contrario tutti in riduzione, anche se non ancora marcata, i gettiti relativi alle principali imposte, quelle che hanno componenti del Pil come imponibile: “Il gettito Ire evidenzia una lieve variazione negativa dello 0,5% (-381 milioni di euro) […]. Il gettito Ires registra una flessione dell’1,6% (-157 milioni di euro) […]. In flessione il gettito Iva (-1,4% pari a -705 milioni di euro) che riflette l’effetto congiunto dell’aumento della componente Iva del prelievo sulle importazioni (+2,8%) e della flessione della componente relativa agli scambi interni (-2,2%) che risente della stagnazione della domanda interna in particolare nel comparto dei beni di consumo durevoli compensata solo parzialmente dagli effetti legati all’incremento di un punto percentuale dell’aliquota Ivaintrodotta dal D.lgs 138/2011” . Persino le entrate relative ai giochi “si riducono complessivamente del 5,7% (-404 milioni di euro)”.

Queste voci di entrata sono destinate a ridursi ulteriormente nel secondo semestre a causa dell’accentuarsi della recessione economica. Esse attenueranno in conseguenza o cancelleranno del tutto gli effetti incrementali prodotti sul gettito dalle diverse manovre dello scorso anno e alla fine del gioco si rimarrà solo con la recessione e le sue conseguenze. Il governo ha accettato lo scorso anno il rischio recessivo dell’aumento delle imposte e il risultato che ottiene è una recessione molto più grave senza alcun miglioramento significativo delle condizioni delle nostre finanze pubbliche.

Come ho scritto in un’altra occasione, l’attuale governo sembra identificare il Paese col suo settore pubblico, il settore pubblico col suo bilancio e il bilancio col suo pareggio. Ma l’economia di mercato che sostiene il Paese e soddisfa i bisogni dei cittadini è ben più importante dell’economia pubblica. Se la prima non funziona neanche la seconda può generare risultati di rilievo.

Possiamo quindi farcela da soli? La risposta è ancora affermativa, ma solo a condizione di cambiare radicalmente la strada sbagliata che è stata sin qui caparbiamente seguita. Aumentare le tasse produce recessione, non aumento di gettito e improbabili e persino inutili pareggi di bilancio. Nel Def dello scorso aprile il governo prevedeva un Pil reale 2012 in riduzione dell’1,2% e un Pil nominale in aumento, per via della dinamica dei prezzi, dello 0,5%. Col Pil reale che si ridurrà invece (almeno) del 2,5% anche il Pil nominale, il quale rappresenta il denominatore del rapporto debito/Pil, è destinato a ridursi di circa un punto percentuale. Questo significa che se anche il governo avesse miracolosamente raggiunto l’agognato pareggio di bilancio già nel 2012, il rapporto debito/Pil avrebbe continuato a crescere a causa della riduzione del denominatore. Quando persino il Pil nominale si riduce il pareggio di bilancio diventa uno strumento spuntato.

Cosa bisogna fare allora? È molto semplice, bisogna ridurre le tasse, non aumentarle, per riavviare il normale circuito economico e spezzare le aspettative negative degli operatori economici. E poiché ridurre le tasse nell’immediato ridurrebbe il gettito e aggraverebbe il fabbisogno del settore pubblico, occorre intervenire sugli assetti del settore pubblico avviando un robusto percorso di ridimensionamento dell’intervento statale. Nell’attuale perimetro pubblico vi sono numerose organizzazioni, le imprese pubbliche, che operano sul mercato e recuperano (o dovrebbero recuperare) i loro costi attraverso i ricavi da mercato. Non vi è nessuna ragione che continuino a restare pubbliche. Anche la loro proprietà può essere riaffidata al mercato attraverso processi di privatizzazione. Per ognuna di esse vi sono importanti esempi stranieri in cui la proprietà è felicemente privata e non vi sono stati i temuti effetti negativi sul sistema economico pavesati dai troppi italiani contrari alle privatizzazioni.

Nell’attuale perimetro pubblico vi sono inoltre molte altre organizzazioni che pur non operando sul mercato producono servizi a domanda individuale erogati ai cittadini. Questi servizi a domanda individuale sono finanziati attraverso la tassazione generale: il governo preleva le tasse ai cittadini e poi fornisce alle organizzazioni le risorse finanziarie necessarie per pagare i dipendenti e gli acquisti. È un sistema di Stato-holding, ma sarebbe meglio dire di Stato-ombrello, che non funziona perché fonte di molti sprechi e inefficienze. Alla fine dei processi produttivi si scopre infatti che i servizi pubblici prodotti valgono molto di meno delle tasse prelevate.

Perché allora non introdurre una radicale riforma, superando il modello di Stato-ombrello? Tutte queste organizzazioni possono essere estromesse dal recinto della Pubblica amministrazione e non più finanziate per i fattori che consumano, bensì per i servizi che producono, individuati nella loro quantità e qualità. A sorvegliare sull’efficienza non sarebbe più il super commissario Bondi, bensì 60 milioni di cittadini-consumatori liberi di scegliere da chi servirsi. Si potrebbe anche fare una cosa aggiuntiva, quella di lasciare in più nelle tasche dei cittadini quanto esattamente serve per comperare questi servizi dalle organizzazioni pubbliche riformate (e dare dei buoni a chi non è fiscalmente capiente). Può anche darsi che di fronte al miglioramento dell’offerta indotto dalla concorrenza tra produttori i cittadini desiderino spendere di più, non di meno. E questo sarebbe una manna per la crescita economica. Con queste riforme tanto la spesa pubblica quanto la pressione fiscale potrebbero essere simultaneamente ridotte sino a un massimo di 13-14 punti di Pil.

Come reagirebbe lo spread? Sicuramente non nella stessa maniera prodotta da ulteriori inasprimenti di aliquote fiscale.

P.S.: Dopo che questo contributo era già stato completato, un articolo de Il Corriere della Sera ha fornito informazioni sulla propensione del governo ad aggiornare le previsioni macroeconomiche: “Sicuramente il governo dovrà rivedere al ribasso le previsioni sull’andamento dell’economia di quest’anno, ma le previsioni per la seconda parte del 2013 sono migliori e in ogni caso, secondo i tecnici dell’esecutivo, la flessione del Prodotto interno lordo non è tale da compromettere l’obiettivo di riduzione del deficit pubblico nel 2012, e quindi indurre a nuove manovre correttive”. Ora sul fatto che nuove manovre sarebbero deleterie non ci piove, tuttavia che un calo non previsto del Pil, con gli effetti che esso determina sugli imponibili delle maggiori imposte, sia ininfluente sia saldi di finanza pubblica appare tutto da dimostrare.

Più interessante ancora è la conclusione dell’articolo: “A maggior ragione, alla luce dei nuovi dati sul Pil, lo stimolo all’economia resta, in ogni caso, la priorità assoluta del governo Monti. E già per fine agosto si annuncia il taglio degli incentivi e delle tasse alle imprese, da cui si attende una maggior crescita del prodotto di 1,5 punti all’anno”. Il lettore conosce tipologie di stimoli all’economia in grado di compensare stangate fiscali? Chi scrive non ne conosce, tranne ovviamente quello di cancellare gli errati aumenti delle tasse. Quanti ai meccanismi che permetterebbero, grazie al taglio degli incentivi e delle tasse alle imprese, di generare una maggior crescita del prodotto di 1,5 punti all’anno anche in questo caso li ignoriamo. Peccato che neppure l’articolista del Corriere ce li spieghi.

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