Vi sono diversi modi di valutare il provvedimento di finanza pubblica appena approvato dal governo per l’anno 2014, la cosiddetta legge di stabilità. Ne considero tre: il metodo, la direzione, l’intensità degli interventi che contiene. Per valutazione del metodo intendo semplicemente porre la domanda se il modo con cui si interviene sulla finanza pubblica, attraverso principalmente un provvedimento omnibus presentato una volta l’anno, sia adeguato o meno e con quali modalità potrebbe essere migliorato. Per direzione intendo quale tipo di strategia viene prescelta: quale mix tra più tasse e meno spese e quali spostamenti tra entrate, da un lato, e spese, dall’altro. Infine, per intensità dei provvedimenti intendo quanto pesanti essi, da un lato, si rivelino per i soggetti interessati (contribuenti, dipendenti pubblici, ecc.) e con quanta efficacia, dall’altro, appaiano in grado di intervenire sui problemi del settore pubblico. Poiché la questione del metodo è la più importante la tratto per ultima.



La direzione della manovra è più corretta delle precedenti – La prima considerazione che si è indotti a formulare dalla lettura delle informazioni che sono circolate, non essendo ancora pubblico il testo del provvedimento, è che la direzione sia più corretta rispetto ai precedenti provvedimenti di finanza pubblica, siano essi quelli ordinari o i numerosi straordinari. A maggio 2010, quando Tremonti fece la prima manovra straordinaria di finanza pubblica dopo la brusca e intensa recessione del 2008-09 sostenemmo su queste pagine e in altre sedi che essa fosse sostanzialmente sbagliata: grande nelle dimensioni ma non risolutiva rispetto ai numerosi problemi strutturali del nostro settore pubblico e deludente per la qualità dei provvedimenti. Quel giudizio critico sembrò essere condiviso anche dai mercati internazionali dato che nelle settimane successive alla sua presentazione lo spread tra i nostri Btp e i Bund tedeschi fece un gradino di crescita che rimase poi sostanzialmente immutato sino alla grave crisi di fiducia dell’estate 2011.



Di fronte alla rapida ascesa degli spread nella seconda metà di quell’anno, i due governi che si succedettero in Italia reagirono con tre nuove manovre straordinarie che andavano nella direzione di una più rapida correzione dei saldi di finanza pubblica, destinata a conseguire il pareggio di bilancio nell’anno 2013 e con esso anche la stabilizzazione del debito. Come è andata a finire lo sappiamo benissimo: dopo ognuna di quelle manovre, persino la terza attuata dal governo Monti, lo spread riprese impietosamente a crescere e solo differenti politiche monetarie della Banca centrale europea riuscirono a fermarlo e avviarne la ridiscesa. Sul fronte interno, invece, abbiamo avuto il fallimento nel riequilibrio di bilancio, dato che la tripla manovra da cinque punti di Pil ha migliorato di neppure un punto il disavanzo in rapporto al Pil mentre ha prodotto una recessione da caduta della domanda interna pari a quattro punti di Pil reale in un biennio.



Dato questo fallimento, che in Italia è peraltro percepito da pochi come tale, era inevitabile un cambio di rotta e un cambio di velocità nella direzione del risanamento dei conti. Il nuovo provvedimento ha due pregi: da un lato, l’abbandono dello strumento delle tasse, che è stato sperimentato come controproducente, come mezzo principale per la ricerca del riequilibrio dei conti; dall’altro, l’accettazione di una velocità ridotta nella riduzione del rapporto deficit/Pil. Infatti, dopo l’ambizione del pareggio di bilancio del governo Monti si ritornano ad accettare piccoli gradini di riduzione da mezzo punto l’anno. Esso ha tuttavia anche due difetti principali: la “timidezza” degli interventi sulla spesa pubblica e il fatto che, pur non predominanti, vi siano interventi anche dal lato delle tasse, sia nella forma di incrementi di aliquote che nell’introduzione di nuovi acronimi fiscali, nuove imposte che vanno a sostituire tasse precedenti.

È discutibile il ricorso a maggiori tasse – La scelta di usare anche lo strumento delle tasse non è condivisibile, dato il fallimento delle tasse precedenti. Era dunque meglio evitare del tutto questo strumento, a maggior ragione trovandoci in un momento in cui abbiamo assolutamente bisogno di uscire da una recessione che perdura da ormai otto trimestri. Perché invece pasticciare introducendo una nuova sigla (Trise, il nuovi tributo comunale sui servizi che sostituisce l’Imu prima casa e la Tares, già Tarsu) e perché aumentare l’imposta di bollo sulle comunicazioni legate ai prodotti finanziari? Era meglio non toccare del tutto il fronte delle imposte, dato l’impatto negativo che in questo modo si produce sulle aspettative dei consumatori. Al più si poteva reintrodurre l’Imu sulla prima casa, ma solo per abitazioni eccedenti una dimensione minima, proporzionata al numero dei componenti della famiglia che la abita. Sarebbe risultato molto più chiaro e comprensibile. E sul versante opposto rischia di restare ininfluente la riduzione per meno di 3 miliardi del cuneo fiscale. Se dividiamo questa cifra per il numero totale dei lavoratori otteniamo pochi euro al mese pro capite, in parte in favore dei datori di lavoro, in parte dei lavoratori. Che tuttavia dovranno pagare l’Iva al 22%, se e quando fanno la spesa di beni non essenziali, e la nuova Trise….

 

Gli interventi sulla spesa sono microscopici (e sono solo tagli) – La delusione maggiore è tuttavia dal lato della spesa pubblica: la riduzione complessiva prevista, pari a 2,5 miliardi, corrisponde allo 0,3% della spesa pubblica complessiva che ammonta a circa 800 miliardi annui. Una briciola. Inoltre, essa assume la forma dei consueti tagli di bilancio: 1,5 miliardi al budget dei ministeri e un miliardo di minori trasferimenti alle regioni, dunque una minor spesa per lo Stato che non è tuttavia detto che si trasformi anche in minor spesa per il settore pubblico nel suo complesso. E la tanto citata spending review? Non pervenuta. Per ora oltre alla nomina del nuovo commissario straordinario non è emerso nulla di nuovo. Questa insufficienza dal lato della spesa richiama il tema del metodo e della coerenza dello strumento delle manovre annuali di bilancio con gli obiettivi della razionalizzazione e riforma dell’intervento pubblico.

 

Il settore pubblico non è riformabile con le manovre – Chi scrive ha avuto occasione di collaborare, molti anni fa, alla stesura delle manovre annuali di finanza pubblica che ai tempi si chiamavano leggi finanziarie. È accaduto nel 1994 (governo Berlusconi I), 1995 (governo Dini) e 1996-98 (governo Prodi I). La manovra del 1996, in particolare, fu molto consistente perché aveva per obiettivo, al fine di consentire l’ammissione dell’Italia nella moneta unica, di riportare sotto il 3% del Pil il disavanzo del 1997, riducendolo di ben quattro punti percentuali in un solo anno. A differenza dell’analogo obiettivo perseguito in più tempo dal governo Monti, nel 1997 il risultato fu pienamente centrato e il successivo ingresso nell’euro ci permise a regime un risparmio di sette punti di Pil di minor spesa per interessi (che purtroppo sono stati tutti rispesi nelle voci primarie nel decennio successivo). Le considerazioni che seguono le ho maturate durante quell’esperienza e ritengo siano state ampiamente confermate dal tempo trascorso.

La gestione del settore pubblico è insoddisfacente perché basata su un approccio esclusivamente finanziario: il bilancio pubblico assegna annualmente risorse agli innumerevoli enti che lo compongono nello stesso modo con cui il gestore di un parco veicoli decide quanta benzina mettere nel serbatoio di ognuno. Quale e quanta strada faranno dipende invece dai singoli enti e dalla loro performance, che sarà funzione delle condizioni della loro organizzazione, dunque del motore. Lo Stato, usando l’autorità, può indirizzare il percorso degli enti, ma è non in grado di garantire che raggiungano le mete assegnate. E in ogni caso non riesce a svolgere questa funzione quando assegna le risorse.

In realtà uno Stato efficiente può anche raggiungere risultati adeguati usando gli strumenti del comando e controllo, ma questo tuttavia non funziona in Italia da molti decenni. Con le manovre finanziarie e i provvedimenti che regolano il funzionamento degli enti, lo Stato centrale sposta bandierine sulla carta geografica del settore pubblico, ma le truppe burocratiche locali hanno ampi margini per non spostarsi (o per farlo nella forma evitandolo tuttavia nella sostanza). Qual è la soluzione? Rendere lo Stato efficiente? Facile a dirsi, ma purtroppo sinora non vi si è riusciti e forse non ci si è neppure provato.

Perché allora non rovesciare tutta l’impostazione, affidando la spending review direttamente ai cittadini-consumatori di servizi pubblici? Se sono loro a far arrivare direttamente i soldi della benzina ai conducenti burocratici degli enti pubblici, essi dovranno necessariamente trasportarli secondo i percorsi desiderati. È il modello della Pubblica amministrazione come taxi: il cittadino sale, si fa trasportare per un percorso, poi paga la corsa e con questi soldi il taxista è in grado di fare il pieno di benzina. Così funzionano i taxi veri. È il mercato. Lo Stato sinora ha funzionato diversamente: il cittadino anticipa con le tasse versate allo Stato il finanziamento delle corse dei taxi, lo Stato anticipa ai taxisti-burocrati il finanziamento del pieno della benzina e quando i cittadini arrivano alla fermata ovviamente non trovano alcun taxi che li trasporti.

Come si fa a riorganizzare la Pubblica amministrazione esattamente come il servizio dei taxi (quello vero)? È molto semplice. Si prendono tutte le organizzazioni pubbliche che producono ed erogano servizi a domanda individuale (scuole, università, ospedali, ecc.), si rendono indipendenti dallo Stato (pur restando pubbliche) e si mettono in concorrenza tra loro finanziandole con un sistema di prezzi anziché di trasferimenti. Non si tratta altro che di copiare nel settore pubblico, che pubblico ma non più statale resta, i meccanismi di mercato dei prezzi e della concorrenza, riducendo le distanze di funzionamento tra i due settori.

Il settore privato si basa su tre pilastri: proprietà privata, uso del meccanismo dei prezzi, concorrenza tra i produttori. Quello pubblico si è sinora basato sui tre pilastri opposti (e risulta per questo semicrollato): proprietà collettiva, uso dell’autorità al posto dei prezzi, assenza totale di qualsiasi forma di concorrenza. Basta prendere dal primo modello le caratteristiche che gli permettono di funzionare e mettere assieme proprietà pubblica, meccanismo dei prezzi e concorrenza tra gli operatori. Ricordiamoci infatti come si chiama nel mercato il commissario straordinario alla spending review. Si chiama concorrenza.