Se valutiamo lo stato di salute della finanza pubblica osservando la dinamica del debito pubblico in rapporto al Pil non abbiamo molti motivi per stare allegri. Infatti, Eurostat, l’istituto di statistica delle comunità europee, ci ha appena confermato che il nostro debito si è attestato al 133,3% del Prodotto interno lordo nel secondo trimestre del 2013, segnalando che continua a crescere a velocità più elevata sia rispetto alla media Ue che a quella dell’Eurozona: tre punti in più rispetto al trimestre precedente contro circa un punto sia per l’Ue che per l’Eurozona. Peggio di noi tra i paesi di medie dimensioni hanno fatto solo la Grecia, con quasi nove punti, e il Portogallo con poco meno di quattro. Nessun altro tra i paesi maggiori, gruppo di cui facciamo parte, ha fatto peggio: in Spagna, Paese problematico, è cresciuto di 2,2 punti, in Francia di 1,6, in Germania è sceso di 0,7 punti. Il nostro debito in rapporto al Pil è inoltre il secondo più elevato d’Europa dopo quello greco, che si attesta al 170%, anche se siamo seguiti a ruota da Portogallo e Irlanda, come è possibile osservare nel primo grafico a fondo pagina.



Invece altri paesi storicamente caratterizzati ancora più di noi da elevato intervento dello Stato nel sistema economico, elevata spesa pubblica ed elevata tassazione si trovano nella parte opposta del grafico, con valori attorno al 40-50%: Svezia, Danimarca, Finlandia. Questa differenza non sarà dovuta, come sostengo da tempo, principalmente alla diversa efficacia ed efficienza della spesa pubblica, alla differente performance della Pubblica amministrazione?



I dati che abbiamo sinora utilizzato si riferiscono a un singolo trimestre, messo a confronto col trimestre precedente. Se estendiamo il confronto allo stesso trimestre dell’anno precedente (dunque il II 2013 rispetto al II 2012) usiamo un metodo migliore (che evita eventuali effetti stagionali differenziati tra paesi), ma ricaviamo dati non meno preoccupanti: in quattro trimestri il nostro debito in rapporto al Pil è salito di 7,7 punti, uno dei maggiori incrementi nell’Ue. Invece, l’aumento medio europeo è stato di circa 2 punti percentuali, come possiamo vedere dal secondo grafico. In esso appare degno di menzione il dato della Germania, l’unico tra i paesi maggiori in cui il rapporto si riduce (di oltre due punti).



Il dato del debito italiano in valore assoluto non è di per sé di elevato interesse se non per il superamento della soglia dei 2.000 miliardi, definitivamente avvenuto proprio nel primo semestre dell’anno. A fine giugno 2013 il debito si è infatti attestato a 2.076 miliardi, oltre 40 in più rispetto alla fine del trimestre precedente, e risulta il secondo più ampio d’Europa, preceduto solo dal debito tedesco che è di 2.146 miliardi (ma a fronte di ben altro Pil al denominatore del rapporto). Considerando la crescita continua del debito italiano e le performance positive di quello tedesco il nostro è tuttavia destinato a superarlo, guadagnandosi a quel punto il terzo posto nella classifica mondiale (dopo Stati Uniti e Giappone).

Grafico 1. Debito pubblico lordo in rapporto al Pil (2° trimestre 2013)

Fonte: Eurostat

Grafico 2 Variazione debito pubblico lordo in rapporto al Pil (II trimestre 2013-II trimestre 2012)

Fonte: Eurostat

Questi dati dimostrano che il rigore fiscale non è servito in alcun modo a fermare e neppure a frenare la corsa del debito. È invece riuscito benissimo a trasformare una debole crescita in una recessione prolungata. L’incoerenza tra obiettivi perseguiti e risultati di segno contrario ottenuti fa a questo punto sorgere la domanda su quanto i governanti europei abbiano effettivamente compreso dei meccanismi relativi alla sostenibilità dei debiti pubblici.

Temiamo molto poco, dovendo constatare come un rigore fiscale imposto per rendere più sostenibili gli alti debiti pubblici di alcuni paesi problematici abbia finito in realtà con l’accelerarne la crescita del rapporto debito/Pil e dunque per renderli meno sostenibili. In questo caso si dovrebbe allora più correttamente parlare di ottusità fiscale, anziché di rigore fiscale.

 

Cosa i governanti europei (non) hanno compreso circa la sostenibilità dei debiti sovrani

Quando nel 1992 fu sottoscritto il trattato di Maastricht si utilizzarono due parametri di finanza pubblica: il rapporto debito/Pil, che non avrebbe dovuto superare il 60%; il rapporto deficit/Pil che non avrebbe dovuto superare il 3%.

Dei due obiettivi quello più importante è indubbiamente il primo, poiché è da esso che si traggono valutazioni circa i rischi sulla sostenibilità del debito: un valore elevato e crescente nel tempo è segnale di pericolo, così come un valore rapidamente crescente anche se non elevato in partenza. Tuttavia esso è un obiettivo di breve periodo, non ottenibile in pochi anni se si parte da valori elevati. Per conseguirlo è necessario tenere la nave su una rotta coerente che veniva indicata dal trattato nel rapporto deficit/Pil non superiore al 3%.

Purtroppo la rotta è coerente con la meta e permette di conseguirla solo a determinate condizioni delle sottostanti correnti economiche, la crescita annua del Pil nominale. Infatti, il rapporto debito/Pil viene accresciuto ogni anno per l’effetto dell’aumento dello stock di debito che sta al numeratore e viene attenuato per l’effetto dell’incremento del Pil nominale che sta al denominatore. L’incremento annuo del debito è il disavanzo pubblico (assumiamo per semplificare che debito netto=debito lordo e indebitamento=fabbisogno). La variazione annua del rapporto debito/Pil è data dal rapporto deficit/Pil meno il tasso di crescita del Pil nominale moltiplicato per il rapporto tra debito e Pil.

Il parametro deficit/Pil riguarda dunque uno solo dei fattori che determinano la variazione del rapporto debito/Pil. Il secondo fattore, trascurato già nel trattato di Maastricht, è il tasso di crescita del Pil nominale il quale reca beneficio tanto maggiore al rapporto debito/Pil quanto più alto è tale valore. Per fare un esempio: una crescita nominale del 3% riduce il rapporto debito/Pil di 3,5 punti percentuali se esso è al 120% e di 1,75 punti se è al 60%. La crescita economica è in conseguenza ancora più importante per la sostenibilità dei debiti dei paesi a più alto rapporto debito/Pil. Purtroppo il trattato di Maastricht metteva già in partenza a disposizione dei governi occhiali sfocati che privilegiavano l’osservazione dei saldi di finanza pubblica a danno della crescita.

Col Fiscal compact gli occhiali sfuocati sono stati sostituiti da fondi di bottiglia. Infatti, l’obiettivo del disavanzo entro il 3% che riguardava il numeratore è stato sostituito dall’obiettivo del pareggio di bilancio, trascurando che se in condizioni economiche normali i costi “recessivi” del ricondurre il disavanzo al 3% possono essere trascurati in quanto inesistenti o irrilevanti, non altrettanto può dirsi per economie in recessione o reduci da recessioni. Se dunque, dopo non aver fatto spesso rispettare l’obiettivo del 3% a economie in condizioni normali, si impone il pareggio a economie in recessione dovremmo parlare di eutanasia economica o di suicidio economico assistito. Il freno brusco imposto al numeratore del rapporto ha per effetto il cedimento del denominatore, con la conseguenza di un mancato contributo della crescita del Pil nominale al contenimento del rapporto debito/Pil ben maggiore del vantaggio ottenibile col contenimento del disavanzo. Il rigore che riduce il disavanzo/Pil ma accelera la crescita del debito/Pil, allontanando gli obiettivi di sostenibilità, non si può chiamare rigore. Si deve chiamare ottusità fiscale.

Vediamo allora come l’ottusità fiscale, imposta dall’Ue, ma accettata dai nostri due penultimi governi, ha operato in questi anni in Italia:

1) Nel 2010, primo anno dopo la recessione, il disavanzo pubblico è stato ancora consistente e pari al 4,5% del Pil; tuttavia una crescita del Pil nominale pari al 2,1% ha contribuito ad attenuare il rapporto debito/Pil per 2,4 punti percentuali determinandone un incremento totale pari a 2,1 punti (4,5 meno 2,4).

2) Nel 2011 il disavanzo pubblico è stato ridotto al 3,8% del Pil; tuttavia una crescita del Pil nominale pari all’1,7% ha contribuito ad attenuare il rapporto debito/Pil per 2,0 punti percentuali determinandone un incremento totale pari a 1,8 punti (3,8 meno 2,0).

3) Nel 2012, dopo le maximanovre del secondo semestre 2011, il disavanzo pubblico è stato ulteriormente ridotto al 3,0% del Pil; tuttavia, il Pil ha avuto una crescita negativa anche in termini nominali, pari al -0,8%, che ha contribuito a incrementare il rapporto debito/Pil di un punto percentuale aggiuntivo per un incremento totale pari a 4,0 punti (3,0 di disavanzo/Pil più 1,0 per riduzione del Pil nominale). L’effetto è stato in conseguenza un incremento nel rapporto debito/Pil doppio rispetto ai due anni precedenti nei quali invece il disavanzo pubblico era risultato più consistente.

4) Nel 2013 il disavanzo pubblico è previsto costante (al 2,9% del Pil, da noi arrotondato a 3 punti); invece il Pil avendo già acquisito un calo reale dell’1,5% probabilmente resterà fermo in termini nominali. L’effetto complessivo dei due fattori sarà in conseguenza un aumento nel rapporto debito/Pil di altri 3 punti, per un totale di 7 punti nel biennio 2012-13 contro 3,9 punti nel biennio precedente.

Si ha in tal modo una misura dell’ottusità fiscale italo-comunitaria: la tripla manovra di finanza pubblica del secondo semestre 2011, i cui effetti sono stati stimati in 4,7 punti di Pil al 2013, permette nel biennio un miglioramento complessivo di soli 0,8-0,9 punti nel rapporto deficit/Pil (contro 1,7 punti nel biennio precedente) e porta a un incremento complessivo di 7 punti nel rapporto debito/Pil, contro i 3,9 realizzati nel biennio precedente. Il debito pubblico italiano è ora meno sostenibile di quanto fosse due anni fa.

 

(5- continua)