Nelle precedenti due puntate (qui la prima e qui la seconda) abbiamo provato a delineare le cause all’origine dei comportamenti inefficienti delle organizzazioni pubbliche. Tale ricerca è stata motivata dalla consapevolezza che la spendig review, nelle sue diverse possibili declinazioni, è un’attività necessaria ma tutt’altro che sufficiente per porre rimedio ai problemi della Pa e che inoltre essa appare viziata all’origine dalla mancata definizione di una diagnosi in assenza della quale si dovrebbe essere molto fortunati per indovinare la terapia.



Si è cercato in primo luogo di dimostrare l’ineluttabilità di esiti inefficienti delle organizzazioni pubbliche: (i) in quanto non assoggettabili al controllo critico della concorrenza, in grado di correggerne comportamenti irrazionali o di metterne in discussione la sopravvivenza; (ii) in quanto governate da architetture normative statiche, quella dell’ordine giuridico che le ha istituite e degli apparati del diritto amministrativo che ne regolano il funzionamento; (iii) in quanto dirottate dai politici, e dagli alti dirigenti che per loro conto le controllano, verso finalità incoerenti e spesso incompatibili con la loro mission istituzionale.



La cancellazione di questi fattori identifica un nuovo modello organizzativo per gli apparati pubblici basato su alcuni requisiti “sistemici”. In primo luogo, organizzazioni pubbliche produttive di servizi per i cittadini richiedono, per essere efficienti, una gestione manageriale: essere guidate da una autorità personale anziché da un ordine giuridico statico, definito in sede istitutiva e, in generale, da strumenti tipici del diritto amministrativo. In secondo luogo, il perseguimento dell’efficienza richiede di poter mettere in discussione l’esistenza delle organizzazioni qualora dimostrino per un tempo eccessivo di non essere in grado di raggiungerla. Anche le organizzazioni pubbliche debbono poter fallire. Questo implica che organizzazioni efficienti possono esistere, nell’area pubblica produttiva di servizi, solo a condizione di una loro estromissione dal recinto della Pubblica amministrazione, quella che è oltra a essere organizzata da regole giuridiche è anche valutata ai fini del rispetto dei parametri di Maaastricht.



È dunque necessaria una riorganizzazione degli apparati pubblici (quelli che producono servizi utilizzati dai cittadini) sotto nuove forme istituzionali, intermedie tra Stato e mercato, organismi ibridi con finalità pubbliche ma con strumenti operativi di controllo tipici del mercato (concorrenza, fallimento). Una forma potrebbe essere quella degli enti pubblici economici, già usati in passato nell’area delle public utilities, poi societarizzate e in rari casi privatizzate. Si realizzerebbe in questo modo nel settore pubblico una dicotomia di forme organizzative tra: (i) strutture pubbliche finalizzate alla produzione di provvedimenti amministrativi, per le quali è giustificato il mantenimento all’interno della Pubblica amministrazione e l’individuazione di specifici e differenti percorsi di riforma; (ii) strutture finalizzate invece alla produzione di servizi, che debbono essere estromesse dalla Pubblica amministrazione anche se non trasferite necessariamente e totalmente al mercato.

All’interno di queste ultime è inoltre opportuno separare: (i) le organizzazioni pubbliche finalizzate a erogare secondo regole non di mercato i servizi ai cittadini; (ii) le organizzazioni, pubbliche o eventualmente non più pubbliche, finalizzate alla produzione di questi servizi. È compito delle prime garantire il soddisfacimento di bisogni essenziali attraverso un’erogazione, quantitativamente e qualitativamente adeguata, di servizi. Esse integrano il lato della domanda, in sostituzione o a complemento della posizione dei soggetti beneficiari, e ne rappresentano il soggetto pagatore. Le organizzazioni del secondo tipo producono invece i servizi su incarico delle prime e ne i ricevono i corrispettivi dopo aver erogato agli aventi diritto. Esse rappresentano il lato dell’offerta e possono, anzi debbono, perdere l’incarico ed essere sostituite qualora la loro produzione sia qualitativamente insoddisfacente o antieconomica.

L’accesso all’offerta, inoltre, deve essere contendibile: nuovi operatori debbono poter competere per offrire il servizio mentre il soggetto responsabile dell’erogazione deve potersi privare dei servizi dei suoi fornitori, qualora inadeguati o eccessivamente costosi, e sostituirli, nell’interesse della collettività, con altri migliori. L’assegnazione del servizio deve avvenire con procedure a evidenza pubblica.

Le innovazioni indicate introducono, seppure in forma modificata, alcune caratteristiche tipiche del mercato: la possibilità di concorrenza tra fornitori, l’uso di strumenti contrattuali, l’uso del sistema dei prezzi, la definizione e il pagamento di corrispettivi legati anche alla qualità dei servizi forniti, la possibilità di scelta dei servizi da parte del cittadino (anche se non è lui a pagarli, essendo erogati con criteri non di mercato).

La produzione dei servizi potrebbe essere inoltre affidata a organizzazioni non profit, quali fondazioni o cooperative di lavoratori. Nel caso di affidamento a fondazioni preesistenti, il settore pubblico potrebbe cedere la proprietà degli strumenti di produzione al momento utilizzati in via diretta (quali immobili, attrezzature, ecc.), contribuendo alla riduzione del debito pubblico; nell’ipotesi di cooperative, invece, potrebbe assegnare in uso tali beni, conservandone la proprietà.

Uno strumento ulteriore è rappresentato dalla trasformazione di organizzazioni pubbliche in nuove fondazioni, conferendo la proprietà degli strumenti di produzione oppure assegnandoli in uso. In tutti questi casi il committente pubblico conserverebbe un certo controllo sull’esercizio delle attività produttive, acquisendo tuttavia ex novo gli strumenti per proteggersi da comportamenti inefficienti dei nuovi produttori. Questi ultimi, infine, avrebbero la possibilità di affidarsi a gestioni di tipo manageriale e sarebbero in grado di perseguire obiettivi di efficienza anche in relazione all’impiego del fattore lavoro, non più garantito dall’eternità degli enti, ma esclusivamente dalla capacità delle organizzazioni di realizzare performance adeguate.

Nel nuovo modello organizzativo degli apparati pubblici lo strumento critico è affidato ove possibile anche agli utenti, dando loro la possibilità di scegliersi il fornitore e di cambiarlo se insoddisfatti. Esso verrebbe inoltre affidato, nella generalità dei casi, all’ente committente dell’attività produttiva, cioè all’ente responsabile dell’erogazione agli utenti, il quale deve disporre della possibilità di non rinnovare e di disdire il contratto nei confronti di produttori inadeguati. Gli enti committenti, responsabili dell’erogazione di un determinato servizio, dovrebbero risultare molteplici e organizzati su basi territoriali, eventualmente accorpando regioni contigue se di piccole o medie dimensioni. Poiché è evidente che qualcuno di essi potrà rivelarsi più efficace di altri, si tratta anche di individuare un valutatore del loro operato che possa attivare forme di concorrenza per comparazione tra questi organismi.

La responsabilità della valutazione, da organizzarsi su base nazionale, delle performance realizzate a livello territoriale dovrebbe esser affidata a organismi specializzati, appositamente costituiti, interni al settore pubblico ma indipendenti dal governo. Essi dovrebbero perseguire, entro una cornice normativa predefinita, compiti univoci di tutela degli utenti dei servizi che sono oggetto della loro competenza, svolgere periodicamente analisi comparative, valutare i risultati conseguiti ed esercitare azioni sia di moral suasion che di regolazione vera e propria sugli enti territoriali responsabili dell’erogazione.

Si tratta di funzioni per molti aspetti simili a quelle svolte dalle Autorità indipendenti di regolazione, istituite nel caso dei servizi di pubblica utilità, organismi creati al fine di ottenere, artificialmente, in settori nei quali la concorrenza è irrealizzabile o molto debole, esiti comparabili con quelli ottenuti, spontaneamente, in mercati concorrenziali. Qualora le Autorità amministrative indipendenti, aventi compiti di regolazione di uno specifico settore di produzione di servizi pubblici, fossero anche responsabili dell’assegnazione delle risorse complessive provenienti dal bilancio statale, si otterrebbe anche il vantaggio di deministerializzare la spesa pubblica. I Ministeri di settore conserverebbero esclusivamente competenze di studio, monitoraggio dei settori, definizione della relativa legislazione e assegnazione del budget complessivo all’autorità amministrativa competente. In questo modo si otterrebbe anche il vantaggio di allontanare dai ministeri il personale politico interessato all’indirizzo discrezionale, appropriazione o distrazione delle risorse amministrate.

Ovviamente questa riforma non può essere applicata a tutti gli apparati responsabili della spesa pubblica, ma solo a quelli coinvolti nella produzione di servizi per i cittadini. A quanto ammonta la spesa complessiva da essi amministrata? Vediamolo con l’ausilio di un grafico, che illustra la ripartizione per grandi categorie della spesa pubblica complessiva, stimata nell’anno 2013 a 808 miliardi.

 

Di essa le componenti destinate alla produzione di servizi pubblici sono date dagli stipendi pubblici e relativi oneri sociali, pari a 164 miliardi, e dai consumi intermedi, corrispondenti all’acquisto sul mercato di beni e servizi, per altri 130 miliardi. Si tratta in sostanza di una base di spesa pari a 294 miliardi la quale rappresenta oltre il 36% della spesa pubblica complessiva, il 39% della spesa corrente e quasi il 19% del Prodotto interno lordo.

Essa riguarda tuttavia sia la produzione di atti amministrativi in senso stretto che la produzione di servizi a domanda collettiva e di quelli a domanda individuali. Gli ultimi, sui quali la riforma disegnata risulta applicabile senza controindicazioni, sono stimabili sulla base del loro peso nell’intera Unione europea in circa due terzi della spesa totale per la produzione di servizi, corrispondenti a poco meno di 200 miliardi di euro, dunque un quarto della spesa pubblica complessiva e poco più del 12% del Prodotto interno lordo.

Ovviamente se riuscissimo a portar fuori dal recinto della Pa 12 punti di spesa su Pil, la spesa pubblica totale sul Pil scenderebbe da oltre il 50% al 38-39% con benefici effetti anche sul costo medio del debito e sullo spread. Nella prossima puntata vedremo con maggior dettaglio come si potrebbe realizzare.

 

(8- continua)