Sostiene un vecchio detto, che mi veniva spesso ricordato dalla mia nonnina quando ero bambino, che chi ben comincia è già a metà dell’opera. Sarebbe ovviamente troppo facile se valesse anche per i governi, in particolare quello presieduto da Enrico Letta che ieri ha debuttato alla Camera. È certo invece che valga il contrario: iniziando male è molto improbabile che un governo possa rimettersi in careggiata ed è quasi certo che una brutta partenza comprometta la possibilità di realizzare l’opera perseguita. Non è questo per fortuna il caso che commentiamo oggi. Nonostante le premesse quasi tutte sfavorevoli, è venuto fuori dal cilindro del Presidente Napolitano un governo che anche se non perfetto molto difficilmente ci si poteva attendere migliore.
Molte cose nuove saltano agli occhi e sono state immediatamente colte dalla generalità della stampa internazionale, sia di area conservatrice che di area progressista, e incorporate negli andamenti dei mercati finanziari e del famoso o famigerato spread: in primo luogo il salto generazionale, evidente nell’età media dei ministri, rispetto alle compagini che lo hanno preceduto; il conseguente “accantonamento”, non sappiamo ora se transitorio o definitivo, delle vecchie guardie dei principali partiti; la presenza ampia ma non invadente di ministri politici; l’assenza di personalità ritenute divisive; la coerenza, molto più ampia che in passato, tra le competenze personali di una quota elevata dei nuovi ministri e il dicastero assegnato; la presenza di tecnici in ruoli chiave; il fatto che la quasi totalità dei membri siano ministri per la prima volta. Chi avrebbe scommesso alla vigilia del voto e nelle settimane seguenti su un esito del genere?
Già prima dell’appuntamento elettorale si aveva la certezza che non vi sarebbe stata una maggioranza netta e coerente in entrambe le Camere, requisito indispensabile per avere un governo nel nostro bicameralismo perfetto. Questa era la conseguenza del “Porcellum”, il peggior sistema elettorale mai adottato da quando esiste la democrazia: l’unico sistema che perseguendo il bipartitismo attraverso regole maggioritarie rende in realtà massima la probabilità di non avere maggioranze o di averle divergenti nelle due Camere. Un sistema che toglie agli elettori nello stesso tempo ogni voce in capitolo riguardo ai parlamentari che saranno eletti. A questo pessimo sistema occorre poi aggiungere l’elevato clima di conflitto tra le principali forze politiche, l’incapacità di dibattere sui problemi veri degli italiani e di competere su proposte alternative di provvedimenti.
Un marziano che fosse sceso sulla terra per leggere i programmi dei partiti non si sarebbe assolutamente accorto da essi della grave crisi economica in cui versa il nostro Paese e delle sue conseguenze sul benessere materiale, e ormai non solo materiale, degli italiani: la caduta del reddito, degli investimenti, dei consumi delle famiglie, persino quelli sanitari e alimentari, i fallimenti crescenti delle imprese, la riduzione dell’occupazione, i quasi tre milioni di disoccupati, l’assenza quasi totale di prospettive adeguate per i giovani, i migliori dei quali indotti da essa all’emigrazione intellettuale.
Non solo nei programmi elettorali non c’erano le risposte a questi problemi, ma purtroppo non vi erano neppure le domande. Come pensare dunque che si potesse formare un governo con larga maggioranza che si ponesse al servizio dei problemi degli italiani? Chi vi avrebbe scommesso? Io stesso ero nettamente pessimista e ancora pochi giorni fa scrivevo su Twitter che mentre in un Paese normale, come può essere la Germania, una Grosse Koalition è fatta per realizzare le parti migliori dei programmi dei partiti partecipanti, in un Paese atipico come l’Italia essa potrebbe essere anche fatta per realizzare le parti peggiori. Fortunatamente la nuova formazione di governo ha smentito la mia affermazione.
Questo ovviamente non basta a garantire, da solo che il nuovo governo riuscirà a realizzare gli obiettivi che si prefigge, tuttavia occorre riconoscere che essi sono quelli corretti, che le motivazioni sono condivisibili e che gli strumenti messi assieme con la formazione della squadra appaiono coerenti. Ovviamente appare curioso come la necessità abbia fatto mettere assieme forze così divergenti, smentendo un sistema politico, quello della Seconda repubblica, che si era voluto bipolare. L’esito delle ultime elezioni è la dimostrazione dell’artificiosità di questa costruzione: il sistema bipolare impone infatti l’alleanza tra le forze moderate della sinistra e quelle radicali, così come l’alleanza tra quelle moderate e quelle radicali della destra. Tuttavia le differenze, identitarie quando non anche ideologiche, tra moderati e radicali di ogni schieramento sono tali da impedire ogni coerente e duratura cooperazione di governo quando l’una o l’altra perviene a una netta maggioranza.
Non è un fatto nuovo nella storia d’Italia dato che preesisteva persino all’unità nazionale. Si può allora sostenere che la strategia che ha portato alla nascita del nuovo governo sia in realtà molto simile a quella spesso adottata durante il Regno d’Italia liberale, in cui vigeva un parlamentarismo perfetto e non vi erano, prima dell’emergere del partito socialista e di quello popolare, partiti organizzati come siamo stati abituati a conoscere nell’Italia repubblicana: creare maggioranze di governo a partire dal centro dello schieramento parlamentare tagliando gli estremi incompatibili. L’inventore di questa strategia si chiamava Camillo Cavour e la sua alleanza con Urbano Rattazzi fu chiamata Connubio. Non fu l’unico ad adottarla: anche Depretis e, soprattutto, Giolitti con risultati riconosciuti come riformatori (Giorgio Ruffolo, Un paese troppo lungo). Certo la prima volta l’esito fu persino l’unità d’Italia, sulla quale nessuno avrebbe peraltro scommesso. Ma lasciamo parlare uno storico autorevole: “La politica (di Giolitti) – che d’altra parte continua una tradizione italiana, quella del Depretis e dello stesso Cavour – è volta alla formazione di una maggioranza parlamentare di centro che consenta di governare dissolvendo, per così dire, le differenze teoriche dei programmi nella prassi parlamentare” (F. Chabod, L’Italia contemporanea 1918-1948). Chabod prosegue ricordando che questa strategia non riuscì invece a Giolitti quando cercò di aggregare al governo il partito socialista. Evidentemente c’era già allora chi non voleva mescolarsi per difendere la sua purezza ideologica e sappiamo quali furono le conseguenze ultime di quella scelta.
Siamo dunque di fronte a un nuovo Connubio (l’ultimo fu quello tra Dc e Pci alla fine della guerra), oppure ha ragione Grillo a definirlo come “inciucio”? Ovviamente la risposta definitiva la potrà dare solo il governo Letta con la sua azione. Per ora limitiamoci a osservare che la stampa internazionale appare praticamente unanime nel dare la prima interpretazione, pur consapevole delle difficoltà che attendono il governo, e nessuna testata autorevole accoglie la seconda.
Il discorso che Letta ha fatto ieri alla Camera conferma l’interpretazione favorevole: l’accordo è fatto affinché il governo possa occuparsi dei problemi degli italiani, non di quelli dei partiti contraenti. L’obiettivo è dunque di contenere i costi della politica, eliminare i rimborsi elettorali, abolire totalmente le province, garantire la democrazia interna dei partiti. E sulle politiche economiche da adottare le priorità sono quelle corrette: crescita economica e lavoro sono irrinunciabili e non possono essere sacrificati al riequilibrio dei conti pubblici, pur necessario.
Si supera in tal modo l’errore del governo Monti che ho spesso definito nel seguente modo: l’aver scambiato il Paese col suo settore pubblico, il settore pubblico col suo bilancio e il bilancio col suo pareggio. Ora invece viene finalmente prima il Paese dei cui problemi il settore pubblico deve occuparsi, senza aggravarli con squilibri di finanza pubblica. Come ottenere queste cose è complesso ma non impossibile e vi ritorneremo sopra a breve.
Per ora limitiamoci a osservare che il governo Letta appare consapevole che al bilancio pubblico serve gettito, non aliquote, e che al gettito serve che gli italiani siano in grado di produrre reddito. Non è tagliando la torta del reddito con un coltello fiscale più grande che si ottengono fette di gettito più grandi, ma solo tagliando torte più grandi, possibilmente con un coltello fiscale meno espropriativo. L’Italia sta sperimentando la pressione fiscale più alta di tutti i tempi in tutto il mondo (sul Pil emerso). È ora di smettere.