Il governo in carica si trova di fronte al difficile compito di avviare riforme economiche urgenti che siano in grado di far ripartire la crescita economica e nello stesso tempo di alleggerire i problemi della finanza pubblica. Si tratta in fondo della stessa missione del governo tecnico Monti, tuttavia resa molto più difficile dall’insuccesso da esso riportato e dal conseguente aggravamento della situazione economica generale. Il precedente governo si dimostrò disponibile a sacrificare la crescita economica sull’altare del rigore di finanza pubblica. Peccato tuttavia che il gradino ottenuto nel 2012 di miglioramento del disavanzo pubblico in rapporto al Pil, pari a 0,8 punti percentuali, sia stato molto contenuto e identico ai miglioramenti riportati nei due anni precedenti senza grandi manovre di finanza pubblica. Invece, il prezzo pagato per conseguirlo è consistito in una dinamica del Pil, reale e nominale, peggiore di circa tre punti percentuali rispetto a quella del 2011.
Questo andamento ha zavorrato la dinamica del rapporto debito/Pil dal lato del denominatore molto più di quanto abbia fatto sul versante opposto il miglioramento del rapporto deficit/Pil. Ma il contenimento di questo rapporto, richiesto dall’Unione europea, non è fine a se stesso. Ha infatti senso solo se è in grado di riflettersi positivamente sulla dinamica del rapporto debito/Pil. Se accade il contrario, come avvenuto in Italia nel 2012, esso perde completamente la sua funzione e trasforma un rigore finanziario solo apparente in autolesionismo finanziario effettivo. L’unica certezza di questa crisi, in sostanza, è che i vertici dell’Ue e dei suoi principali paesi sembrano capire ben poco degli stessi significati economici dei parametri introdotti col Trattato di Maastricht.
Cosa può allora e cosa deve fare l’Italia per uscire dal labirinto? Non è facile dirlo, ma è senz’altro molto più facile iniziare col dire cosa non deve fare. Innanzitutto non deve accrescere ulteriormente la pressione fiscale: come si è visto con l’esperienza Monti, questa azione produce grandi effetti recessivi, ma debolissimi quando non inesistenti miglioramenti del gettito. Dovrebbe anzi iniziare a fare l’opposto, diminuendo selettivamente aliquote fiscali laddove è più probabile che esse possano generare effetti ricostituenti sugli imponibili. Se la torta del reddito si riduce progressivamente, l’utilizzo di un coltello fiscale sempre più grande non garantisce fette di gettito crescenti. Fette più grandi possono essere ottenute solo da torte più grandi. Dunque nell’uno e nell’altro caso, arresto nella crescita delle aliquote o loro riduzione, è evidente che la sostenibilità della finanza pubblica è destinata a reggersi integralmente sul versante della spesa, sul suo controllo ed efficientamento. E questo è un altro lato debole dell’azione del governo Monti, il quale annunciò ai quattro venti la spending review, ma senza portare a casa alcun risultato significativo.
Il settore pubblico italiano spende poco più del 50% del nostro Pil, ma dato che la spesa pubblica si regge sul Pil emerso, quello che paga le tasse che finanziano la spesa, e il Pil emerso è solo circa l’80% del Pil totale (secondo le stime Confindustria e in assenza di stime Istat recenti), il peso della spesa pubblica sul Pil emerso è dunque abbondantemente sopra il 60%, è in crescita e tende ad avvicinarsi ai due terzi. Il settore pubblico italiano spende dunque quasi due euro ogni tre di Pil prodotto alla luce del sole.
Come si può fare per ridurre tale quota? Bisogna in primo luogo ricordare quali sono le principali componenti della spesa pubblica. Per circa un decimo del suo totale essa è spesa per interessi sul debito. L’ammontare di questa voce non è dunque deciso dalle leggi, bensì dal mercato, il quale definisce anno per anno, attraverso la stratificazione dei rendimenti dei titoli per scadenza, il costo medio del debito. Però il governo può influire in maniera indiretta su questo valore: quanto più esso risulta credibile tanto minore risulterà lo spread e dunque il sottostante costo medio. Può inoltre influirvi in maniera diretta dismettendo asset patrimoniali, immobiliari o mobiliari
Una seconda voce, anch’essa piccolina, è rappresentata dalla spesa per investimenti, attuati direttamente dal settore pubblico oppure indirettamente, finanziando a fondo perduto investitori appartenenti al settore privato. È una voce già molto compressa in questi anni e dalla quale non sembra possibile, né opportuno ottenere molto di più. Ciò non riduce tuttavia l’esigenza di un’attenta valutazione dei costi e dei benefici di ogni progetto d’investimento, attività sinora realizzata in maniera assolutamente insufficiente, e quella di una radicale revisione dei vantaggi trasferiti al settore privato i quali potrebbero essere molto più efficacemente convertiti in sgravi fiscali da spalmarsi sulla generalità delle imprese.
Restano a questo punto due voci di spesa molto grandi le quali rappresentano all’incirca una metà ciascuna dei restanti otto decimi della spesa pubblica: la spesa per trasferimenti, all’interno della quale la parte del leone è esercitata dalla spesa pensionistica, e la spesa per la produzione di servizi pubblici non di mercato. Sul primo versante occorre ricordare le numerose riforme che si sono succedute dagli anni ‘90 a oggi e il cui obiettivo è stato quello di rendere sostenibile la spesa pensionistica allungando progressivamente nel tempo l’età pensionabile e riavvicinando il calcolo delle prestazioni a meccanismi attuariali (criterio contributivo al posto del criterio retributivo). Queste riforme hanno tuttavia prodotto effetti concentrati su quote particolari degli iscritti alla previdenza, in primo luogo i lavoratori con una più ridotta anzianità contributiva (riforma Dini del 1995) o coloro che più prossimi si trovavano all’età della pensione sulla base delle regole previgenti (riforma Fornero del 2011). In nessun caso sono stati tuttavia toccati i cosiddetti “diritti acquisiti”, il “diritto” a prestazioni elevate, non giustificate dai contributi versati.
Sino ai primi anni ’90, ad esempio, era concesso ai dipendenti pubblici femmine di andare in pensione con quattordici anni, sei mesi e un giorno di contributi e ai maschi con diciannove anni, sei mesi e un giorno. Il riscatto della laurea e il periodo del servizio militare rientravano a pieno titolo nel computo di tali requisiti. Questi casi estremi sono stati superati dalle riforme previdenziali senza peraltro che sia stato chiesto, proprio per la ragione dei “diritti acquisiti”, nessun sacrificio ai già beneficiati. Occorre inoltre ricordare che il vecchio sistema retributivo garantiva trattamenti tanto più generosi rispetto ai contributi versati quanto più ripido era il profilo di crescita stipendiale nel tempo e dunque elevato il livello di arrivo alla vigilia della pensione.
Siamo sicuri che i “diritti acquisiti” siano davvero intoccabili? Si tratta infatti di diritti acquisiti che richiedono risorse che tuttavia non sono state ancora acquisite. Per pagare i diritti occorre dunque che risorse equivalenti siano sottratte: e a chi se non ai più giovani e meno avvantaggiati? Ma i possessori di queste risorse non dovrebbero avere anch’essi acquisito il diritto di non vedersele sottrarre dal legislatore corrente per pagare gli onerosi diritti che i legislatori passati hanno allegramente elargito? Il contribuente attuale, che ha iniziato a lavorare quando la pressione sul lavoro era al 25% o 30% non dovrebbe aver simmetricamente acquisito il diritto di non vedersi espropriare i frutti del suo lavoro al fine di garantire ad altri benefici che egli non potrà tuttavia ottenere quando si ritroverà in identiche condizioni?
Queste irragionevoli asimmetrie di trattamento confliggono con la semplice definizione di equità orizzontale e verticale che Aristotele aveva, alcune legislature or sono, offerto ai suoi lettori: trattare in maniera eguale gli eguali e in maniera differenziata e proporzionale i diseguali. Coi diritti acquisiti invece gli eguali diventano diseguali (gli eguali coi diritti acquisiti diventano più eguali degli eguali senza diritti) e i diseguali che hanno versato meno contributi possono, grazie ai diritti acquisiti, eguagliare nei trattamenti coloro che hanno versato molti più contributi. Bisognerebbe dunque avere il coraggio di ricalcolare col criterio contributivo i trattamenti previdenziali superiori a quelli medi e introdurre meccanismi di rallentamento della loro dinamica e, nei casi più ingiustificati, un ricalcolo verso il basso. In questo modo si disporrebbe di risorse in grado di ridurre il cuneo fiscale, vera e propria tassa disincentivante sull’impiego del fattore lavoro.
Si perviene infine a quell’oltre 20% di Pil speso per la produzione di servizi pubblici non di mercato. In Europa due terzi circa di questo tipo di spesa sono riferiti a servizi a domanda individuale e un terzo a servizi a domanda collettiva (tra cui quelli dello stato minimo). In Italia la proporzione è circa 60-40 ed essa segnala un peso eccessivo dei costi relativi ai servizi a domanda collettiva (i beni comuni tanto citati). Questi evidentemente vanno rivisti e messi in efficienza. Tuttavia è possibile sostenere in maniera generalizzata che è necessario ridurre la spesa pubblica? Chi scrive è convinto di no: non è sbagliata la spesa in quanto tale, bensì il problema è insito nell’aggettivo “pubblica”.
Ragioniamoci sopra: si tratta in fondo di soldi privati, dei cittadini contribuenti, i quali vengono raccolti coercitivamente da altri cittadini privati, i quali svolgono il ruolo di politici o burocrati pubblici, e spesi per fornire servizi in gran parte a domanda individuale, che generano dunque un beneficio individuale, privato. E il tutto lo chiamiamo spesa pubblica. Di questi servizi il settore pubblico dispone coercitivamente livelli di erogazione, livelli qualitativi e meccanismi di finanziamento e garantisce che siano pagati i fattori produttivi consumati nella loro produzione, indipendentemente dalla loro efficacia ed efficienza. Non sarebbe meglio fare in modo che siano i cittadini utenti a fare queste scelte, finanziando volta per volta i diversi servizi? Al settore pubblico competerebbe da un lato la loro produzione, tuttavia attuata da enti pubblici autonomi finanziati coi prezzi praticati, dall’altro lato il sostegno finanziario ai cittadini non autosufficienti. Avremmo in questo modo 60 milioni di controllori della spesa pubblica, e senza oneri per lo Stato. Sarebbero infatti i cittadini a scegliere e non politici e burocrati e gli enti produttori, pur pubblici, risulterebbero in concorrenza tra di loro, esattamente come i privati, e verrebbero pagati finalmente per il valore dei servizi che producono e non più per il costo dei fattori che consumano. Il cittadino soddisfatto potrebbe a questo punto scegliere di domandare di più e spendere di più, con effetti benefici sul nostro Pil. Più spesa, ma non più spesa pubblica.