Rigore fiscale sì, ottusità fiscale no. Questo risulta essere in estrema sintesi il messaggio formulato dal Presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, in occasione della presentazione del Rapporto annuale 2013 della Corte dei Conti sul coordinamento della Finanza pubblica. Il rapporto, di elevata qualità e interesse alla pari degli scorsi anni, rappresenta in realtà un bilancio dei risultati non conseguiti dalla nostra finanza pubblica e della crescita economica mancata nell’intero quinquennio della XVI legislatura (2008-2013): “Il 2012 è stato l’ultimo anno di una legislatura che, misurandosi con una crisi economico-finanziaria internazionale ed interna di intensità mai sperimentata, ne ha registrato i pesanti riflessi sulla gestione delle politiche di bilancio […]. I rischi di insolvenza connessi alla crisi dei debiti sovrani e il collasso delle prospettive di crescita economica hanno impresso un tono fortemente restrittivo, in tutta l’area dell’euro, alla condotta di finanza pubblica, nel tentativo di contenere l’espansione di disavanzo e debito. L’adozione di una linea severa di austerità – oggi oggetto di critiche e ripensamenti – non ha, peraltro, impedito che gli obiettivi programmatici assunti all’inizio della legislatura fossero mancati”.

La Corte evidenzia anzi come “alla luce dei risultati, l’intensità delle politiche di rigore adottate dalla generalità dei paesi europei (sia) stata, essa stessa, una rilevante concausa dell’avvitamento verso la recessione”. Il rigore fiscale, nella forma adottata nell’Ue di abbattimento consistente e rapido del disavanzo pubblico, da realizzarsi con qualsivoglia modalità, costi quel che costi, e indipendentemente dal peggioramento solo all’inizio inatteso del ciclo economico, rappresenta a nostro avviso un caso di ottusità fiscale, forse il maggior errore di politica economica da quando essa è stata inventata e meritevole di essere a lungo ricordato nei libri di storia economica.

In alternativa a questo rigore irrazionale esiste invece un rigore ragionevole di finanza pubblica che consiste semplicemente nell’adottare il mix di politiche ottimali per salvaguardare la sostenibilità del debito pubblico. E il principale indicatore che ci informa sulla sostenibilità del debito è rappresentato dal rapporto debito/Pil: nessun problema di sostenibilità se esso è molto basso (ad esempio, inferiore al 60% richiesto dal 1992 dal trattato di Maastricht e meglio ancora se inferiore al 40%, come in diversi paesi nordeuropei); se invece è alto (ad esempio, il 127% dell’Italia) e se risulta anche crescente, e per di più rapidamente, allora dobbiamo preoccuparci.

Per mettere in sicurezza il debito bisogna fare in modo che il rapporto debito/Pil smetta dapprima di crescere e possa in seguito diminuire. Affinché il rapporto si riduca è sufficiente che il debito che sta al numeratore aumenti meno rapidamente del Pil nominale che sta al denominatore. Non è invece indispensabile che il debito smetta di aumentare. Chiediamoci ora perché da un anno all’altro il debito aumenta. Semplicemente perché è stato emesso nuovo debito netto per finanziare il disavanzo annuale dei conti pubblici. Il disavanzo è la principale causa di incremento del debito nominale (ve ne sono di secondarie che qui trascuriamo). Invece il Pil nominale che sta al denominatore aumenta sia per l’effetto della crescita reale che per il deflatore (dinamica dei prezzi dei beni e servizi prodotti nella nostra economia).

Immaginiamo ora un Paese di fantasia che abbia un Pil di 100 miliardi e un debito di 120, con un rapporto tra i due pari al 120% e crescente negli anni precedenti. Come facciamo a stabilizzarlo? Immaginiamo, ad esempio, che quest’anno il deficit sia di 3 miliardi e che il debito salga in conseguenza a 123 miliardi, aumentando del 2,5%. In questo caso il rapporto debito/Pil risulterà invariato se il Pil nominale crescerà anch’esso del 2,5% (ad esempio, 1% reale e 1,5% deflatore), mentre si ridurrà con una crescita nominale maggiore e aumenterà con un crescita inferiore. Il pareggio di bilancio, che interrompe la crescita del debito, non è in alcun modo condizione necessaria per la sostenibilità del debito. E non è neppure condizione sufficiente perché potrebbe, ad esempio, accadere che il Pil nominale si riduca. In tal caso il rapporto debito/Pil salirebbe anche con pareggio di bilancio.

Ritornando allora al nostro Paese di fantasia, meglio un disavanzo al 4% del Pil e una crescita nominale del medesimo al 2% oppure un disavanzo al 3% del Pil e una contrazione nominale dell’1%? Meglio ovviamente la prima, dato che 124/102 è maggiore di 103/99. Infatti, nel primo caso abbiamo un risultato di 121,6 e nel secondo di 124,2. Peccato che il primo caso sia (con cifre arrotondate) l’Italia del 2011 e il secondo l’Italia del 2012, dopo il rigore fiscale.

Possiamo allora dare una definizione “scientifica” di ottusità fiscale: “Peggiorare il rapporto debito/Pil, e rendere in conseguenza più problematica la sostenibilità del debito, attraverso politiche di riduzione troppo rapida e consistente del deficit pubblico”. A questo punto ritorniamo al rapporto della Corte dei Conti e vediamo quali sono le conseguenze dell’ottusità fiscale sulla finanza pubblica italiana, efficacemente sintetizzate in queste poche frasi tratte dall’introduzione.

In Italia, nel periodo 2009-2013 la mancata crescita nominale del Pil ha superato i 230 miliardi: un dato sintetico che fornisce una immediata percezione delle difficoltà di gestione del bilancio pubblico mentre l’economia non cresce più. Nell’arco della legislatura, la perdita permanente di prodotto si è tradotta in una caduta del gettito fiscale anche superiore alle attese (quasi 90 miliardi meno della proiezione di inizio periodo), ma non in una riduzione della pressione fiscale, che anzi è aumentata rispetto al 2009 di oltre un punto in termini di Pil.

Le ripetute manovre correttive hanno, invece, consentito importanti risparmi di spesa, il cui livello è risultato nel 2012 inferiore di oltre 40 miliardi alle stime iniziali. Anche in questo caso, tuttavia, il cedimento del prodotto non ha permesso alcuna riduzione dell’incidenza delle spese sul Pil passata, nel triennio, dal 47,8 al 51,2 per cento. Il consuntivo di legislatura ha, dunque, mancato il conseguimento del programmato pareggio di bilancio, con un indebitamento netto risultato alla fine di quasi 50 miliardi più elevato dell’obiettivo originario”.

Proviamo a spiegarlo in maniera più semplice: secondo uno scenario ragionevole delineato all’inizio della legislatura, il quale prevedeva semplici interventi di manutenzione dei conti pubblici senza drastici interventi, il Pil nominale avrebbe dovuto attestarsi a fine quinquennio su un livello più elevato di circa 230 miliardi rispetto ai 1566 effettivi, dunque un valore superiore del 15%. Questo maggior valore del Pil avrebbe apportato un maggior gettito fiscale di circa 90 miliardi, pari a 5,5 punti di Pil, che avrebbe tra l’altro permesso il conseguimento del pareggio di bilancio. Anziché il pareggio di bilancio abbiamo invece un disavanzo di 48 miliardi, corrispondenti a tre punti di Pil. La differenza tra il minor gettito fiscale rispetto al pareggio e il disavanzo effettivo, corrispondente a circa 40 miliardi, è stata coperta da risparmi di spesa rispetto alle previsioni dello scenario di inizio legislatura di cui esattamente metà sono stati posti a carico dei dipendenti pubblici. In sostanza, nello scenario con maggior Pil, maggior gettito e bilancio in pareggio potevamo anche permetterci una spesa pubblica più elevata per 40 miliardi.

Che fine hanno fatto allora i 110 miliardi di manovre totali attuate dal 2008 al 2012, destinati a divenire 140 entro il prossimo anno? Si può fare un calcolo approssimativo e provvisorio, che necessità tuttavia di approfondimento. Se i 110 miliardi di effetti già previsti al 2012 includono con esattezza i 40 miliardi di risparmio di spesa appena ricordati, il maggior gettito fiscale atteso dalle manovre è quantificabile in 70 miliardi. Tuttavia la Corte dei Conti ci dice che il gettito fiscale è stato inferiore alle attese per 90 miliardi. Vi sarebbe stato dunque un effetto netto riduttivo di 20 miliardi: l’insieme degli inasprimenti fiscali della XVI legislatura avrebbe portato a una perdita di gettito di 20 miliardi.

Se così fosse vorrebbe dire che siamo in presenza di una elasticità degli imponibili rispetto alle aliquote superiore all’unità: aumentare le aliquote dell’1% (non, sia chiaro, di un punto percentuale) farebbe ridurre gli imponibili di più dell’1%, portando a una riduzione del gettito. Saremmo in sostanza in un tratto discendente di una curva di Laffer.