Il governo Monti ha lasciato al governo Letta una pesante eredità macroeconomica e fiscale: sul primo versante la peggior recessione italiana in tempo di pace, sul secondo manovre “rigoriste” che arrivano a pesare cinque punti di Pil complessivi nel 2013 e che hanno causato la recessione record senza tuttavia abbattere il disavanzo pubblico. Purtroppo non è un’eredità alla quale si possa rinunciare e giustamente il nuovo governo si è dato da fare per evitare gli inasprimenti fiscali, come l’aumento dell’aliquota Iva, che le vecchie manovre avevano messo in calendario per quest’anno. Ed è dunque una buona notizia il fatto che il vertice di maggioranza di ieri abbia mantenuto la barra ferma sul non aumento dell’Iva e sulla revisione in via definitiva dell’Imu che grava sulle prime case, anche se non ci trova certo d’accordo il fatto che la copertura del mancato aumento della prima sia stato sinora trovato attraverso anticipi di entrate anziché tagli o almeno rinvii di spese.



Ma questo necessario giocare in difesa non può certo bastare per portare l’economia italiana fuori dalle secche. Proprio l’altro ieri la Banca d’Italia ha pubblicato il suo Bollettino Economico trimestrale evidenziando un ulteriore consistente peggioramento delle sue previsioni riguardo alla caduta del Pil reale nel 2013: dal -1% previsto nel bollettino primaverile al -1,9% attuale, praticamente il doppio. Non vorremmo, considerando che sono previsti altri due bollettini trimestrali prima che si conosca il dato definitivo del 2013, che anche i prossimi si trovino costretti a rettificare al ribasso queste previsioni. Tra l’altro se il Pil reale cade di quasi due punti, è quasi certo che anche il Pil nominale si riduca di qualche decimo. E il Pil nominale è il denominatore del rapporto debito/Pil e se esso si riduce non basterebbe neppure un miracoloso pareggio di bilancio che tenga fermo il numeratore a impedire un’ulteriore crescita del rapporto. Il pareggio di bilancio non basta se il Pil nominale scende, ma se vi è crescita economica adeguata anche un moderato disavanzo è sostenibile e compatibile con un rapporto in riduzione.



Nel frattempo il livello del debito pubblico italiano continua a macinare record su record, come gli organi di stampa non hanno mancato di rilevare l’altro ieri. Si tratta tuttavia di una non notizia: sin tanto che il bilancio pubblico non sarà in pareggio e le entrate risulteranno non inferiori alle spese il debito è ovviamente destinato a salire, dato che esso è il modo utilizzato dallo Stato per finanziare l’eccesso di uscite rispetto alle entrate. Non dobbiamo dunque stupirci che ogni mese si registri un nuovo record nel livello del debito (salvo i rari casi in cui le entrate fiscali eccedono, per ragioni stagionali, le spese). E ai fini della sua sostenibilità non è necessario che se ne arresti la crescita in valore assoluto, dato che basta fermarla in rapporto al Pil per poi avviarne la riduzione. Ma questa modalità, già sperimentata con successo nel nostro paese negli anni ‘90, richiede, accanto a una gestione razionalmente rigorosa del bilancio pubblico, anche dosi di crescita economica, qualcosa che, come l’acqua in un territorio desertificato, sembra da tempo scomparsa nel nostro panorama economico.



Nel dare la non notizia del nuovo livello record del debito i giornali hanno tuttavia mancato di riportare la vera e duplice notizia. La prima è l’aumento record del debito che è in parte dovuto alla quote di contributo italiane ai meccanismi europei salva-stati, in parte a politiche di provvista del Tesoro, ma in parte a un deterioramento non irrilevante del fabbisogno pubblico. La seconda, che spiega l’ultima parte della precedente, è il fatto che gli effetti migliorativi dei saldi pubblici prodotti dalle maxi-manovre del 2011 si stanno attenuando, mentre gli effetti peggiorativi prodotti dalla prolungata recessione fiscale si stanno accentuando. A fine anno è molto probabile che il rigore fiscale introdotto nel 2011 sulla spinta dello spread sui titoli pubblici e delle pressioni europee risulterà aver prodotto solo recessione e neppure un euro di miglioramento dei conti pubblici.

Approfondiamo le due notizie partendo dalla crescita dello stock di debito. Come illustrato nel grafico seguente, il livello del debito pubblico lordo italiano, calcolato secondo le regole del trattato di Maastricht, è aumentato nell’anno 2011 di quasi 56 miliardi di euro, mentre nel 2012, dopo le tre manovre consecutive di finanza pubblica che hanno avviato il rigore fiscale, è cresciuto di poco meno di 82 miliardi e negli ultimi 12 mesi di cui abbiamo i dati, quelli terminanti a fine maggio 2013, è aumentato di quasi 100 miliardi!

Ci si attende a queste punto una domanda del lettore non esperto delle tecnicalità della finanza pubblica: a cosa serve il rigore fiscale se dopo di esso l’economia crolla e il debito pubblico, di cui il rigore dovrebbe servire a garantire la sostenibilità, cresce molto più rapidamente di prima? Non ci stiamo forse tirando contemporaneamente due zappe sui piedi? In realtà, questa domanda è prematura in relazione ai dati che abbiamo sinora esaminato perché riferiti al debito pubblico lordo. Bisogna dunque capire preliminarmente quali sono le ragioni per le quali il debito è cresciuto così rapidamente. Esse appartengono a tre categorie:

1 – Perché è aumentato l’eccesso di spesa rispetto alle entrate (e questa è la ragione cattiva);

2 – Perché il Tesoro fa provvista di fondi emettendo più titoli di quelli richiesti dalla somma del fabbisogno del periodo e dei titoli in scadenza che vanno rinnovati. I fondi raccolti in eccesso restano a disposizione del Tesoro, depositati presso la Banca d’Italia o oltre istituzioni, e servono per coprire periodi successivi in cui le condizioni di mercato meno favorevoli consigliano di attenuare gli importi messi in asta. È una ragione “buona” di aumento del debito, segnale che le condizioni correnti sono ritenute favorevoli dall’emittente, ma anche che esso si attende un deterioramento nei periodi successivi;

3 – Infine per finanziare prestiti a terzi: banche italiane in difficoltà, stati eurozona in difficoltà e meccanismi europei di salvataggio. In questi casi, l’aumento di debito trova corrispondenza in un aumento di crediti del settore pubblico e, almeno in linea teorica, questi fondi dovrebbero prima o poi tornare indietro.

Vediamo allora come queste differenti cause spiegano l’aumento di quasi 100 miliardi in dodici mesi del debito pubblico italiano:

1 – Come illustrato nel grafico precedente (che elabora i dati della nota mensile sul fabbisogno e debito della Banca d’Italia), nei dodici mesi terminati a maggio 2013 i depositi presso la Banca d’Italia, gli impieghi della liquidità del Tesoro e i depositi presso altre istituzioni sono cresciuti di 25 miliardi;

2 – I prestiti bilaterali ad altri paesi eurozona e i conferimenti ai meccanismi europei di salvataggio sono cresciuti di 20 miliardi.

3 – Al netto di queste due componenti, il debito pubblico è invece aumentato di 54,2 miliardi, oltre 3 miliardi in più rispetto a quanto avvenuto nei dodici mesi del 2012.

Debito pubblico “netto” in accelerazione è la conferma di una finanza pubblica in deterioramento, del fatto che la spinta al peggioramento prodotta dalla prolungata recessione è molto più robusta della debole spinta al miglioramento finanziario generata dal rigore fiscale introdotto nel 2011. Le maxi-manovre del 2011 hanno prodotto nel breve periodo miglioramenti di bilancio molto inferiori al previsto e lasceranno nel medio periodo solo effetti recessivi, senza un euro in più nel saldo del bilancio pubblico.

Purtroppo l’ingenua domanda del lettore inesperto che ho precedentemente ipotizzato è pienamente giustificata: a cosa serve il rigore fiscale se a causa di esso l’economia crolla e il debito pubblico accelera la crescita? Purtroppo non tocca alla Merkel l’ardua risposta, ma al governo italiano e nella prossima puntata ci permetteremo un consiglio a dir poco rivoluzionario sul come uscire dal labirinto nel quale le regole del trattato di Maastricht, non comprese ma applicate in maniera tra il miope e il demenziale dai vertici europei in periodo di grave e prolungata crisi, ci hanno cacciati. Si tratta in sostanza di trovare un filo d’Arianna per uscire dal labirinto della Merkel e piantare la medesima, cambiando un po’ il mito, nella moderna Nasso, cioè Maastricht.

 

(1- continua)