L’Istat ha pubblicato giovedì i dati sui conti pubblici nel primo trimestre del 2013. Sono molto interessanti e da essi, con un po’ di elaborazioni, si può estrarre un’analisi delle condizioni attuali della finanza pubblica italiana, una sorta di fotografia di tutti i nodi che sono ormai venuti al pettine ma che si tende ancora a nascondere per poter ignorare. Parafrasando Luigi Einaudi, potremmo dire che l’obiettivo inconfessato è quello di “rifiutarsi di conoscere per non dover deliberare”. Vale dunque la pena di far parlare questi nuovi dati per tracciare una diagnosi sintetica ma esaustiva dei problemi che ci toccano da molto vicino.



Un primo trucco necessario per non farci portare fuori strada è quello di ignorare i dati trimestrali, che risentono della stagionalità che interessa sia le spese che le entrate, e di sommarli ogni volta per quattro trimestri consecutivi al fine di ottenere dati annuali confrontabili. In sostanza, mentre i dati del primo trimestre 2013 non sono più di tanto interessanti, se noi sommiamo i dati dei quattro trimestri che vanno dal secondo del 2012 al primo 2013, otteniamo dati annuali confrontabili con quelli dell’intero 2012 e degli anni precedenti. Così possiamo subito dire se la finanza pubblica sta migliorando o peggiorando e senza grande sorpresa (chi ci legge abitualmente sa il perché) ci troviamo a dover dire che essa sta peggiorando: in sostanza, mentre sino a tutto il 2012 gli effetti migliorativi sul gettito e sui saldi generati dagli inasprimenti fiscali delle maximanovre del 2012 prevalevano sugli effetti peggiorativi generati dalla caduta degli imponibili prodotta dalla recessione fiscale, dal primo trimestre 2013 sta accadendo l’opposto. Gli effetti incrementali prodotti dagli inasprimenti fiscali si stanno progressivamente attenuando e si esauriranno prossimamente, mentre restano e si accentuano gli effetti prodotti dalla caduta degli imponibili.



Se ne vede già traccia sui saldi: nell’intero 2012 l’indebitamento della Pa, quello che è più noto come disavanzo pubblico, è stato pari, secondo i dati Istat pubblicati giovedì a 45,7 miliardi di euro, mentre nei quattro trimestri terminanti a marzo 2013 è salito a 48 miliardi, con un peggioramento di 2,3 miliardi. Nel 2012 vi era stato invece un miglioramento di 12,5 miliardi rispetto al 2011, principalmente dovuto all’introduzione dell’Imu.

Non è azzardato prevedere che il peggioramento proseguirà nei prossimi trimestri. Se la velocità restasse quella appena evidenziata a fine 2013 avremmo un “buco” nei conti pubblici di 9 o 10 miliardi che non è in alcun modo colmabile dal lato delle entrate, dato che ogni pur piccolo inasprimento ulteriore di fiscalità avrebbe effetti depressivi immediati sulle aspettative dei decisori economici. Il peggioramento ipotizzato quasi azzererebbe il miglioramento del 2012, a dimostrazione ulteriore del carattere controproducente delle manovre del 2011. Senza alcuna di esse i conti del 2012 sarebbero andati sicuramente peggio, ma tutti quelli degli anni seguenti sicuramente meglio.



Anche il saldo primario, differenza tra le entrate pubbliche e le uscite che non includono la spesa per interessi, è in peggioramento. Siamo infatti passati da un avanzo di 39,1 miliardi nel 2012 a un saldo positivo di 35,6 nell’anno terminante a marzo 2013, con una riduzione di 3,5 miliardi. Il fatto che il calo sia più ampio rispetto all’indebitamento è dovuto al fatto che la spesa per interessi sul debito è in riduzione, essendo passata dagli 84,8 miliardi del 2012 agli 83,6 dei 12 mesi terminanti a marzo scorso. Rispetto ai 69,2 miliardi dell’anno 2010 siamo ancora poco meno di 15 miliardi al di sopra. Questa cifra, corrispondente a circa 600 euro annui per famiglia, rappresenta il costo dell’instabilità italiana, l’effetto della scarsità di idee e capacità di governo alla quale abbiamo assistito, e con noi i mercati finanziari internazionali, negli ultimi anni.

Per spiegare le dinamiche dei saldi di finanza pubblica occorre evidentemente guardare a quelle delle variabili che le determinano, le voci di entrata e di spesa pubblica, ed è utile farlo su un arco temporale abbastanza ampio. Ad esempio, poiché la prima recessione è iniziata nel 2008 potremmo prendere come anno base il 2007 e osservare la variazione su base annua dapprima delle entrate e poi delle voci di spesa pubblica. Il primo grafico avvia l’osservazione facendo riferimento alle principali voci di entrata. Le linee nel grafico rappresentano per ogni voce la differenza tra l’anno indicato e l’anno base 2007. Evidenziano, ad esempio, come la recessione del 2008-09 abbia prodotto un calo di entrate su base annua di oltre 20 miliardi nelle imposte indirette e di oltre 15 in quelle dirette, mentre essa ha avuto effetti limitati sui contributi sociali.

 

Entrate pubbliche. Differenze annuali in miliardi di euro rispetto al 2007

 

 

Nel biennio 2010-11 una parte di questo calo è stata recuperata principalmente per effetto dell’aumento di imponibili prodotto dalla pur limitata ripresa economica e solo secondariamente per effetto di provvedimenti di finanza pubblica. Invece nel 2012 l’incremento di gettito, pari a oltre 11 miliardi per le dirette e altrettanti per le indirette, è frutto dell’inasprimento fiscale a fronte di imponibili stazionari o decrescenti. Esso ha ridotto il reddito disponibile a partire da redditi stazionari da lavoro dipendente (documentati dal gettito stazionario dei contributi sociali) e probabilmente decrescenti per il lavoro autonomo. Poiché il minor reddito disponibile ha dovuto far fronte a prezzi più alti dei beni di consumo, le famiglie hanno dovuto tagliare drasticamente i consumi reali che si sono contratti di quasi il 7% dall’inizio di questa lunga recessione, un valore mai visto prima in tempo di pace.

Come sono state utilizzate le maggiori entrate pubbliche? Lo spiega il grafico seguente il quale ripete sullo stesso arco temporale per le principali voci di spesa l’esercizio già condotto per quelle di entrata.

 

Uscite pubbliche. Differenze annuali in miliardi di euro rispetto al 2007

 

 

Si può notare dal grafico come diverse voci di spesa appaiano ormai stabilizzate: la spesa in conto capitale è stazionaria su base annua, dopo essere diminuita di quasi 14 miliardi rispetto al 2007; la spesa per il pubblico impiego è ferma poco sopra il livello del 2007 dopo essere diminuita di quasi 7 miliardi rispetto al 2010; le spesa per l’acquisto sul mercato di beni e servizi intermedi è anch’essa ferma dopo essere molto cresciuta nello scorso decennio; anche la spesa per interessi è in lieve riduzione dopo il consistente incremento del biennio 2010-11.

Vi sono margini di miglioramento ulteriore di queste voci? Se si considera che stazionarietà in termini nominali significa decremento in termini reali a causa dell’aumento dei prezzi, essi appaiono trascurabile se non si accetta di intervenire sulla modalità di funzionamento della Pa per modificare la sua performance. A parità di (in)efficienza della Pa i tagli agirebbero sulle prestazioni, non sugli sprechi. Ma per agire sulle performance occorre rivoluzionare la Pa, non basta riformarla. Che ne pensano i sindacati del pubblico impiego?

E arriviamo infine alla vera anomalia della spesa pubblica italiana, che è quella pensionistica. Come si vede dal grafico, pur diminuendo la sua crescita negli anni, essa è aumentata di quasi 50 miliardi dall’inizio della recessione. Scopriamo così che dal 2007 a oggi l’aumento iniziale del disavanzo pubblico, alcuni risparmi di spesa e i più recenti inasprimenti fiscali, sono andati a finanziare il buco nero previdenziale. L’economia italiana ha due grandi anomalie provenienti dal suo settore pubblico: il Paese non più permettersi una performance media della sua Pa così bassa e un numero così elevato di pensionati, una quota così elevata di pensionati giovani e un numero così elevato di pensioni alte non giustificate dai contributi versati nella carriera lavorativa. Ma anziché affrontare questi grandi nodi dell’economia e del settore pubblico si preferisce nascondere o mascherare il pettine. E si arriva così, dopo tante manovre inutili di finanza pubblica e tanti rinvii nel prendere atto dei problemi, a una finanza pubblica non più manovrabile e a un’economia declinante, fattori caratterizzanti di in un paese immobile, palesemente incapace di prendere qualsiasi decisione seria.