Possibile che l’Italia riesca a raddrizzare la nave Costa Concordia, impresa mai realizzata prima per un bastimento di tali dimensioni, e non riesca invece a rimettere in sesto i suoi conti pubblici senza compromettere la crescita o la crescita senza compromettere i conti (e senza farsi “minacciare” dall’Ue)? Perché la Concordia è raddrizzabile e l’Italia apparentemente no? Penso che molti osservatori stranieri della nostra economia si siano posti questa domanda dopo aver visto le immagini dall’isola del Giglio. Eppure il secondo compito, quello economico, appare molto più semplice del primo, quello navale. Ed è anche stato già realizzato, pur in contesti dissimile dall’attuale, in diverse occasioni nella storia dell’Italia unitaria: all’epoca della destra storica, nel primo periodo post-unitario, attraverso una finanza pubblica rigorosa, quindi nel periodo giolittiano e nel secondo dopoguerra, attraverso la stabilizzazione einaudiana, e a metà degli anni ‘90 nuovamente con una finanza pubblica rigorosa. Possibile che un problema già affrontato almeno quattro volte nella nostra storia non possa essere risolto una quinta?
Vi è in realtà un ostacolo rilevante che gioca a rendere problematica la definizione di un’adeguata exit strategy: il problema non ha natura solo tecnica e la sua soluzione non può essere in conseguenza solo tecnica. Questa è la principale differenza rispetto al caso del recupero della Costa Concordia. Nel caso della nave la soluzione poteva non esserci (come non c’è per il recupero del Titanic), ma se c’è, come abbiamo visto, è solo tecnica. Nel caso dell’economia italiana la soluzione, al momento non nota, è di tipo tecnico, nel senso di un adeguato mix di interventi di politica economica, ma la sua individuazione non è puramente tecnica, nel senso della scelta di una tecnica che sia dominante rispetto a tutte le altre e quindi classificabile come migliore. Il problema è che mentre gli ingegneri del recupero della Concordia hanno potuto stimare le reazioni della nave inerte a determinate sollecitazioni, gli economisti non possono stimare con equivalente accuratezza le reazioni degli agenti economici alle sollecitazioni determinate da un set di provvedimenti di politica economica.
Vi sono tuttavia anche similitudini: mentre trovare le tecniche migliori in economia è più difficile, scartare procedure palesemente erronee e dunque dannose dovrebbe essere altrettanto facile. Faccio un esempio ancora utilizzando la nave Costa. Essa è stata raddrizzata facendola ruotare di 65 gradi e a nessuno è venuto in mente di proporre la rotazione complementare di 295 gradi, consistente nel rovesciarla dalla parte opposta sino a portarla con la chiglia per aria per arrivare in seguito all’assetto attuale. Chi lo avesse proposto sarebbe stato sicuramente considerato un folle o un eccentrico e in ogni caso non si sarebbe trattato di un ingegnere. Invece in economia capita che soluzioni altrettanto folli siano proposte, spesso proprio da economisti, e purtroppo prese sul serio e attuate. Ad esempio, voler portare i bilanci degli stati in pareggio quando il loro Pil reale cade e falcidia gli imponibili è altrettanto folle che voler raddrizzare la Costa passando per la sua chiglia per aria. Purtroppo nel caso dei pareggi in recessione si sta cercando di farlo e tutto questo viene chiamato rigore.
Spostiamoci in area economica e facciamo un altro esempio: immaginiamo che il capo di una grande azienda decida consistenti aumenti dei prezzi dei prodotti offerti contando sul fatto che la debole concorrenza possa portare ad aumenti dei ricavi e dei profitti totali (egli prevede che la riduzione percentuale della domanda sarà minore rispetto all’incremento dei prezzi attuati). Immaginiamo che contrariamente alle sue attese i consumatori si arrabbino parecchio riducendo seriamente la domanda. In tal modo i ricavi totali si ridurranno e i profitti si trasformeranno in perdite. Immaginiamo anche che il capo di questa azienda si presenti al consiglio di amministrazione o all’assemblea dei soci con la seguente relazione: “Egregi signori ho il piacere di comunicarvi che la nostra azienda è in attivo strutturale in quanto se all’aumentare dei prezzi le vendite non fossero scese i nostri ricavi sarebbero stati superiori ai costi”. Ad avviso dei nostri lettori questo capo azienda sarebbe osannato come salvatore della medesima oppure licenziato in tronco con avvio di azione di responsabilità?
Il pareggio strutturale del bilancio pubblico italiano è esattamente la stessa cosa: la recessione tuttora in corso è il prodotto dell’inasprimento fiscale, la tripla manovra della seconda metà del 2011, ma se l’inasprimento fiscale non avesse prodotto la recessione allora il bilancio sarebbe in pareggio (e magari anche in attivo…). Il problema è che gli inasprimenti fiscali riducono la domanda aggregata (per il semplice fatto che se diamo più soldi al fisco non possiamo più spenderli per consumi o, se siamo imprese, per fare investimenti) così come il passaggio di navi su fondali inferiori al loro pescaggio solitamente le fa incagliare e spesso anche affondare. Temo, leggendo le notizie sul probabile aumento dell’aliquota Iva, che non si sia consapevoli di queste semplici relazioni causa-conseguenza. Se si aumenta l’Iva è evidente che, a parità di reddito disponibile, diminuirà la domanda reale di beni e servizi. Prendendosi più soldi il fisco ne resteranno di meno per le imprese che producono e offrono i beni. Ma in realtà il provvedimento ha una sua razionalità, seppure perversa: poiché la nave dell’economia italiana non ha ancora la chiglia per aria questo è un modo per avvicinarcisi ulteriormente.
Qual è allora la strategia per una corretta e minimalistica rotazione che rimetta in assetto il nostro sistema economico e il bilancio pubblico? A differenza della Costa Concordia la risposta non può essere solo tecnica, ma richiede una riflessione preliminare su un livello più filosofico. E richiede anche di capire perché siamo finiti con la chiglia per aria, per effetto di quali scelte disastrose del passato ci siamo ridotti in queste condizioni. Come possiamo infatti sapere dove andremo se non siamo in grado di ricostruire da dove arriviamo? E come possiamo azzeccare la cura giusta se non siamo in grado di formulare la diagnosi giusta? Purtroppo a oggi siamo ancora senza una diagnosi della crisi persistente che ha portato al declino del Paese.
Provo allora a formularne sinteticamente una, riservandomi di tornarci sopra in seguito con una riflessione più dettagliata. Nella storia dell’Italia unitaria si sono confrontati due opposti modelli di Stato: il primo è un modello di Stato-arbitro, di garante, attraverso le regole, delle libertà dei cittadini e di promotore, attraverso le politiche, degli interessi condivisi dei medesimi (dei massimi interessi comuni). È un modello sintetizzabile in poche ma efficaci parole di Gaetano Salvemini: «Lo Stato è un’organizzazione utilitaria, creata dagli individui per garantire i diritti individuali, in forza di un “contratto sociale” che lega governanti e governati. Questo Stato, che bisognerebbe chiamare, con parola più pedestre “amministrazione”, non funziona secondo leggi proprie superiori ai diritti individuali, la cosiddetta “ragion di Stato” […]. L’amministrazione o Stato non è dissimile da un corpo di pompieri o da una società di assicurazione sulla vita o contro la grandine» (in G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, 1961, citato in Roberto Vivarelli, Italia 1861, Il Mulino 2013).
In questo modello lo Stato non è al di sopra dei cittadini e i cittadini non sono al servizio dello Stato, bensì accade il contrario, esattamente come il corpo dei pompieri è al servizio dei cittadini e non l’opposto. Purtroppo questo modello ha avuto successo in periodi molto limitati, pur fondamentali, nella storia del Paese, essenzialmente durante i governi della destra storica negli anni ‘60 e ‘70 dell’800 e durante la prima legislatura repubblicana guidata da De Gasperi, le cui scelte economiche furono suggerite da Einaudi e attuate dal medesimo e da Pella. Questo modello dovremmo anche chiamarlo dello Stato liberale, ma preferiamo non farlo data la difficoltà a spiegare l’esatto significato del liberalismo (erroneamente inteso anche da politici di primo piano come “l’anarchia del più forte”, interpretazione che portata alle sue logiche conseguenze trasformerebbe noi liberali in sostenitori dell’assolutismo monarchico e delle dittature, il massimo possibile dell’anarchia del più forte…).
Nel resto della storia d’Italia ha purtroppo prevalso il modello opposto: quello dello Stato-attore, dello Stato protagonista, dello Stato deus ex machina, dello Stato che non è al servizio dei cittadini ma che asservisce i medesimi, resi di fatto sudditi. Questo modello di Stato primattore e interventista, introdotto dalla sinistra storica dell’800, ha avuto il suo massimo durante la dittatura fascista, ma è ritornato in periodo repubblicano con la DC di Fanfani e il centrosinistra ed è rimasto di fatto sino ai giorni nostri. La tripla manovra di finanza pubblica attuata nel 2011 con economia in recessione e i mancati pagamenti ai fornitori della Pa sono le più significative espressione recenti di questo modello: se lo Stato non ha soldi li prende ai cittadini anche se essi sono impoveriti e in difficoltà; se lo Stato non ha soldi non paga i suoi fornitori. Esattamente coma farebbe un monarca assoluto coi suoi sudditi.
Questo modello è ovviamente da rigettare, da una prospettiva liberale, per le sue conseguenze negative sulle libertà dei cittadini. Tuttavia anche se un liberale inorridisce di fronte a tale modello si tratta pur sempre di un giudizio di valore, non di un giudizio di fatto. Il giudizio di fatto, negativo, interviene invece quando si scopre che questo primo attore che si è riservato molti ruoli e una buona parte della recita si rivela in realtà assolutamente non in grado di recitare. Questa è l’Italia di oggi, l’Italia della crisi permanente e del declino. In un modello di Stato-primattore lo Stato potrebbe essere efficiente e anche molto efficiente e noi liberali continueremmo a essergli contrari, ma la nostra critica non potrebbe essere definitiva e risolutiva. Uno Stato interventista ed efficiente potrebbe anche essere al servizio dei cittadini e neutrale nei loro confronti, come una socialdemocrazia nordica. Potremmo contrapporgli un modello diverso, ma non saremmo in grado di dimostrare che questo modello porta necessariamente al fallimento del Paese. Nel caso dell’Italia possiamo invece ragionevolmente sostenerlo. Chi ha preteso nel tempo di guidare discrezionalmente l’intera nave senza avere le capacità per farlo e possedere l’etica del comando l’ha portata a incagliarsi miseramente e rovinosamente sugli scogli.
La malattia dell’Italia è lo statalismo inefficiente, molto simile allo statalismo dei defunti paesi del socialismo reale e ben distante dal modello napoleonico che abbiamo nel tempo cercato di copiare dalla Francia. Come si può pensare di realizzare imprese napoleoniche con truppe burocratiche italiane? La terapia non può che consistere nel superamento dello statalismo inefficiente, dunque nel contenimento dello Stato e nel contemporaneo ripristino di un minimo di efficienza pubblica.
Mission impossible? Tutt’altro. Uno scherzo rispetto al raddrizzamento della Costa Concordia. Il problema è la mancanza di volontà, l’indisponibilità a prenderci sulle spalle le nostre libertà e il relativo carico di responsabilità. Anziché recitare la nostra parte preferiamo che sia lo Stato a farlo al nostro posto, pur consapevoli del fatto che lo farà malissimo. Eppure quando in passato ci siamo assunti direttamente l’onere della recita, essenzialmente nel Rinascimento, nel Risorgimento e nella Ricostruzione, abbiamo prodotto risultati che ci sono stati riconosciuti e sono stati ammirati in tutto il mondo. «In Europa allo stato attuale vi è un solo vero uomo politico ma sfortunatamente è contro di noi. È il Conte di Cavour» riconobbe il nemico Metternich. Riconoscimenti equiparabili, da parte di esponenti di paesi amici anziché avversari, ebbe Alcide De Gasperi nel dopoguerra e le sue qualità personali furono essenziali per far rientrare l’Italia nella cooperazione delle potenze vincitrici della guerra.
L’Italia non è sempre stata accompagnata da scarsa credibilità e il suo declino non appare come un destino ineluttabile, piuttosto come una scelta consapevole.
(Nella prossima puntata proverò a illustrare come si può ritornare da un modello di Stato-attore a un modello di Stato-garante senza generare costi rilevanti, né ridimensionamenti drastici della sfera pubblica).
(2 – continua)