Venerdì, il governo ha deciso di bloccare ogni decisione “su temi, anche rilevanti, di natura fiscale ed economica”, in attesa di un “chiarimento politico e programmatico in parlamento tra le forze della maggioranza che sostiene il governo”. Le dimissioni dei ministri del Pdl annunciate ieri da Angelino Alfano di certo non aiutano a sbloccare la situazione. Proseguendo nel solco delle riflessioni iniziate su queste pagine sul tema, può essere utile a questo punto offrire una verifica (mentre le forze politiche compiono – più o meno responsabilmente – la loro) riguardo i conti pubblici italiani.
Gli agenti economici decidono di solito quanto spendere in funzione delle entrate sulle quali possono ragionevolmente contare, in primo luogo i proventi ordinari, quali i ricavi per le imprese e i redditi da lavoro per le famiglie, e se essi non bastano, ad esempio perché intendono sostenere spese per investimenti, sulla loro capacità di prendere a prestito e successivamente di rimborsare. Per questi agenti sono le entrate a determinare il livello di spesa. Più inconsueto il caso di agenti che decidono le entrate in funzione delle spese e per i quali, in conseguenza, sono le spese a determinare le entrate. Io ne conosco solo due: ovviamente i ladri, i quali se vorranno spendere di più pianificheranno di fare più furti, e gli stati (i politici che li governano), i quali se intendono spendere di più caricheranno di maggiori tasse i cittadini.
Questa è stata la regola invariante della Repubblica italiana, la prima, sia quando è stata gestita dal centro-sinistra che dal centro, e la seconda, sia essa gestita da governi prodiani oppure berlusconiani. L’esperienza tecnica di Monti, che doveva rappresentare la fine di questa prassi, è riuscita a fermare la spesa, ma, sovratassando a dismisura cittadini e imprese, è anche riuscita a frenare le entrate facendo crollare l’economia, e dunque a non migliorare in alcun modo i nostri problemi di finanza pubblica.
Quella sopra indicata non è stata invece la regola di altri stati, i quali non risentono in conseguenza di problemi di finanza pubblica nonostante abbiano sperimentato la recessione del 2008/09. Qual è allora il problema degli stati che decidono le entrate in base alle spese? Che essi non sono al servizio dei loro cittadini perché non sono adeguatamente controllati da essi. Non hanno pertanto sistemi democratici ben funzionanti e nello stesso tempo, in conseguenza, non hanno neppure sistemi economici ben performanti.
Problemi di performance della democrazia si trasformano in problemi di performance dell’economia, di efficienza, e inevitabilmente anche di equità. Stati non controllati dai cittadini mettono alla lunga in pericolo il loro benessere e probabilmente anche la loro libertà. “Lo Stato non ha soldi, dunque ve li prende” (rivolto ai contribuenti) e “lo Stato non ha soldi, dunque non vi paga” (rivolto ai fornitori) sono due esiti ovvi, ai quali stiamo assistendo, del fatto di avere uno Stato che non è al servizio dei cittadini e di cittadini che sono sudditi dello Stato.
Nel caso opposto, quello nel quale i cittadini non sono sudditi e lo Stato è al loro servizio, saranno invece i cittadini a decidere se pagare più tasse per avere più prestazioni pubbliche (ma questo processo avrà un termine) oppure rinunciare a servizi per pagare meno tasse. In questi casi sono le entrate che i cittadini sono disponibili a erogare allo Stato a limitare il suo livello di spesa e dunque l’agente economico “Stato” è ricondotto a un normale agente economico, assimilabile alle imprese e alle famiglie.
Qual è allora il problema numero 1 del nostro Paese? Che si pensa di sistemare quelli che l’Ue dice essere i nostri problemi di finanza pubblica senza metter in alcun modo in discussione un modello suicida di Stato al di sopra dei cittadini che decide le sue entrate in funzione delle sue spese e che pertanto, quando non ha abbastanza soldi, ce li prende. Questo modello insostenibile di Stato spiega tanto il debito e il deficit pubblico quanto l’assenza di crescita, la recessione che dura ormai da sei anni, e il declino economico ma anche sociale e morale del Paese. Purtroppo questi aspetti non sono parametrizzati dal trattato di Maastricht e dunque di essi l’Ue non ci chiede conto e, poiché non ce ne chiede conto, non li consideriamo nel dibattito politico alla stregua di problemi gravi, tali da mettere in pericolo il nostro benessere e alla lunga anche la nostra libertà. Com’è evidente non si tratta di problemi che possano essere affrontati e risolti da “tecnici” dell’economia e neppure da politici senza ampia e lungimirante visione.
A suo tempo avevo criticato il governo Monti sostenendo che esso sembrava identificare l’economia italiana nel solo settore pubblico, il settore pubblico nel suo bilancio e il bilancio nel suo pareggio (peraltro perseguito a suo di tasse). È cambiato qualcosa da allora? Non è cambiato nulla dato che ci si siamo incartati sul modo per evitare lo sforamento marginale del limite del 3% nel rapporto deficit/Pil senza un minimo di analisi in grado di spiegare perché la maximanovra 2011 da oltre 80 miliardi di effetti attesi nel triennio sui conti pubblici, corrispondenti a oltre cinque punti percentuali in rapporto al Pil di quell’anno, si sia limitata a far scendere di pochi decimi il rapporto deficit/Pil rispetto al suo valore di partenza. Com’è possibile che, nonostante una simile manovra, il rapporto deficit/Pil che era al 4,5% nel 2010 e al 3,8% nel 2011 sia sceso solo al 3% nel 2012 e risulti in risalita al 3,1-3,2% nel 2013? La risposta è ben nota, ma purtroppo non la ricorda nessuno: la nuova recessione, quella in corso, peraltro determinata dalla stessa maximanovra.
La maximanovra avrebbe dovuto azzerare il deficit, quello vero, non quello definito come “strutturale”. Invece ha lasciato quasi invariato il deficit ma portato il Pil reale a un -2,4% nello scorso anno, destinato a superare il -4% nel totale del biennio 2012-13. Che cosa è successo? Semplicemente che per ogni euro in più che il governo Monti ha incassato per effetto delle manovre ha perso quasi un euro di entrate ordinarie per effetto della recessione economica autoprodotta che ha falcidiato gli imponibili. Sintesi: la recessione ha battuto il miglioramento del disavanzo quattro punti a (quasi) zero.
E naturalmente visto che stiamo sforando, l’Ue ci chiede di insistere con la cura fallimentare e rinunciare alla soppressione dell’aumento dell’Iva e dell’Imu prima casa, decisioni che confermerebbero la perfetta continuità del modello letale di Stato svincolato dai cittadini che quando finisce i soldi ce li prende. Cosa dovrebbe dire allora il governo per opporsi alla continuazione della “cura letale”, che è anche il titolo di un bel libro (per Bur Rizzoli) nel quale Mario Seminerio spiega gli errori commessi in Europa? Dovrebbe dire che lo sforamento del rapporto deficit/Pil è una conseguenza della cura, non di autonomi comportamenti dello Stato italiano, e dunque bisogna cambiare la cura, non insistere con la medesima.
E che sia una conseguenza della cura è anche facilmente dimostrabile. Vediamo qualche numero, preso dal recentissimo aggiornamento al Def, presentato dal ministero dell’Economia e delle Finanze lo scorso 20 settembre. Nel 2013 il disavanzo della Pa dovrebbe attestarsi a 49 miliardi di euro, quale differenza tra una spesa complessiva di 808 miliardi (di cui 84 miliardi per interessi e 724 miliardi per tutte le restanti voci, la cosiddetta spesa primaria). Il disavanzo secondo il Mef risulterebbe pari al -3,1% rispetto a un Pil nominale stimato in 1557 miliardi, la spesa primaria il 46,5% del Pil, la spesa totale il 51,9%, le entrate totali il 48,7%.
Quali delle precedenti voci risultano discordanti rispetto al quadro previsivo formulato dal precedente governo dopo le maximanovre del 2011? Andiamo a vedere i corrispondenti valori che erano stati indicati dal governo Monti nel Def del 18 aprile 2012. In quel documento la spesa primaria 2013 era prevista al 44,6% del Pil, circa due punti in meno rispetto al Def aggiornato pochi giorni fa. La spesa totale della Pa era invece prevista al 50% del Pil, 1,9 punti al di sotto rispetto all’ultima previsione. Infine, le entrate totali erano previste al 49,5% del Pil, dunque 0,7 punti in più rispetto a ora. Pertanto 1,9 punti in più di spesa e 0,7 punti in meno di entrate fanno 2,6 punti in più di disavanzo, che è infatti previsto al -3,1% mentre nell’aprile 2012 era previsto per quest’anno al -0,5%, dunque un sostanziale pareggio.
Questi numeri sembrerebbero confermare la posizione Ue e smentire la virtuosità dei comportamenti del nostro Paese. In realtà, è l’opposto. Infatti, il Pil nominale, collocato al denominatore dei due gruppi di numeri, non è esattamente lo stesso: nel Def 2012 di Monti era previsto per il 2013 a 1627 miliardi mentre l’aggiornamento Def di Letta lo prevede in 1557 miliardi, esattamente 70 miliardi al di sotto, quelli che si sono persi per effetto della recessione. E le entrate totali della Pa? Indicate in 806 miliardi nel Def di Monti risulterebbero invece pari a soli 759 miliardi, 47 miliardi in meno, in gran parte effetto del minor Pil e della conseguente caduta degli imponibili.
Tutt’altro discorso per quanto riguarda i livelli della spesa pubblica: nel Def di Monti la spesa totale della Pa per il 2013 era prevista in 814 miliardi, nel Def ultimo invece a 808 miliardi, dunque una minor spesa di 6 miliardi. La spesa primaria era invece prevista in 726 miliardi, mentre ora è prevista in 724 miliardi, 2 miliardi al di sotto. Sintesi: l’Italia ha rispettato pienamente i suoi impegni europei in termini di livello della spesa pubblica (totale e primaria); tuttavia la recessione prodotta delle manovre ha condotto a un Pil nominale più basso di 70 miliardi e a minori entrate, in gran parte conseguenti, per 47 miliardi che si riverberano in un maggior deficit di 41 miliardi.
Il maggior deficit rispetto alle previsioni originali è dunque totalmente imputabile alla entrate perdute per effetto della recessione. Inoltre, poiché la spesa non è peggiorata a causa della recessione, è evidente che qualunque ipotesi di minor recessione rispetto all’effettiva si sarebbe tradotto in entrate più alte e in un disavanzo più basso. La recessione è frutto del rigore fiscale, la perdita di gettito e il mancato miglioramento del disavanzo (cioè del peggioramento rispetto alla previsioni) pure. Servono altre ragioni per imporre urgentemente un drastico cambio di rotta?
(3 – continua)