Pur non conoscendo ancora i dati definitivi sull’andamento del Pil, lo stock del debito e i saldi dei conti pubblici nel 2013 (si sapranno tra poco più di un mese e mezzo) è tuttavia possibile tracciare un bilancio semidefinitivo dell’eredità di finanza pubblica che l’anno appena concluso ha lasciato al nuovo. La politica economica del 2014 dovrà fare i conti non solo con questa pesante eredità, che si può riassumere in: (1) prospettive di crescita molto deboli dopo due anni recessivi in cui si sono persi quasi quattro punti e mezzo di Pil reale; (2) deficit pubblico che in rapporto al Pil ha smesso di scendere e che si farà fatica a contenere nel 3% richiesto dal trattato di Maastricht; (3) debito pubblico in rapporto al Pil che, dati i due fattori precedenti, non si riesce a fermare e neppure a rallentare.
Le dinamiche del debito rappresentano la sintesi migliore di questo quadro: in rapporto al Pil esso si sta avvicinando al 135%, un valore mai riscontrato con percorso in crescita nei 152 anni dell’Italia unitaria se non alla fine della Prima guerra mondiale; in cifra assoluta esso risulta aver superato per la prima volta alla fine di novembre scorso i 2100 miliardi, come ci ha fatto sapere mercoledì la Banca d’Italia nella consueta nota mensile sul fabbisogno del settore pubblico. A fine 2011 tale valore fu di 1908 miliardi, mentre a fine 2012 di 1989.
Per utile raffronto è bene ricordare anche il valore del Pil nominale, il dato che sta al denominatore del rapporto, negli stessi tre anni: 1579 miliardi nel 2011, 1566 nel 2012 e 1957 stimati dal governo per il 2013. Mentre il debito al numeratore è salito rapidamente, il Pil (nominale) al denominatore si è ridotto, segnalandoci che nell’ultimo biennio neppure un miracoloso pareggio di bilancio che avesse tenuto fermo il numeratore sarebbe riuscito a fermare la crescita del rapporto.
Poiché l’aumento record del debito, pari a 82 miliardi negli ultimi dodici mesi, è riferito al debito pubblico lordo e in parte dovuto alle quote di contributo italiane ai meccanismi europei salva-stati e in parte a politiche di provvista del Tesoro, è utile, come abbiamo già fatto in altre occasioni, separare queste componenti al fine di evidenziare la parte di incremento relativa al debito pubblico netto, quasi integralmente derivante dal fabbisogno pubblico, per verificare se vi è deterioramento o miglioramento rispetto al passato
Questo esercizio, svolto nel grafico seguente, evidenzia come il livello del debito pubblico lordo italiano, calcolato secondo le regole del trattato di Maastricht, sia aumentato nei 12 mesi compresi tra inizio dicembre 2012 e fine novembre 2013 di 82,2 miliardi. Il dato è praticamente identico a quello del 2012 (81,8 miliardi), mentre nel 2011 fu pari solo a poco più di 56 miliardi.
Noi siamo tuttavia interessati alla dinamica del debito pubblico netto, non di quello lordo. Continuiamo dunque nell’esercizio. Come illustrato nel grafico (che elabora i dati della nota mensile sul fabbisogno e debito della Banca d’Italia del 14 gennaio 2014), nei dodici mesi terminanti a novembre 2013 i depositi presso la Banca d’Italia, gli impieghi della liquidità del Tesoro e i depositi presso altre istituzioni sono diminuiti di 1,9 miliardi. Invece i prestiti bilaterali ad altri paesi eurozona e i conferimenti ai meccanismi europei di salvataggio sono cresciuti di 19,2 miliardi. La somma algebrica delle due voci ci dice che 17,3 miliardi di incremento del debito lordo trovano corrispondenza in un equivalente incremento dei crediti del settore pubblico, mentre i residui 65 miliardi rappresentano invece l’incremento del debito pubblico netto.
Tale dato è negativo per differenti ragioni:
1) In rapporto al Pil stimato per il 2013 esso corrisponde al 4,2%, ben più alto del 3% al quale è invece inchiodato dal parametro di Maastricht il disavanzo di bilancio.
2) È inoltre in netta accelerazione se si considera che, quando facemmo questo stesso esercizio lo scorso luglio, l’incremento nei dodici mesi terminanti a maggio 2013 risultava di 54 miliardi, mentre l’incremento nell’intero 2012 fu di “soli” 50 miliardi.
Che cosa spiega il peggioramento di 15 miliardi nella crescita del debito pubblico netto nell’arco di un anno? In parte esso è sicuramente dovuto all’accelerazione dei pagamenti ai fornitori della Pa che avevano raggiunto ritardi inaccettabili, tuttavia non si può trascurare che negli anni in cui tali pagamenti sono stati rallentati per esigenze di cassa, il fabbisogno, che ha giovato di tali ritardi, non è mai risultato inferiore al deficit, ai fini del quale essi venivano imputati secondo principio di competenza. In sostanza, i soldi che non sono stati dati a suoi tempo ai fornitori della Pa non sono rimasti nelle casse pubbliche, bensì erogati extrabilancio, e dunque formalmente solo prestati, a soggetti, si presume pubblici ma di cui non è pubblico l’elenco e relativi importi, che oggi non appaiono in grado di restituirli (enti territoriali dissestati?). Si tratterebbe in sostanza di deficit mascherato, destinato tuttavia prima o poi a emergere come tale.
Il resto dell’incremento del debito pubblico netto è invece dovuto a una finanza pubblica in deterioramento, al fatto che la spinta al peggioramento degli imponibili e delle entrate, prodotta dalla prolungata recessione economica, è risultata ex post molto più robusta della debole spinta al miglioramento finanziario generata dagli incrementi di aliquote e dall’introduzione di nuove imposte stabilite principalmente attraverso le tre manovre del 2011. Esse hanno infatti prodotto nel breve periodo miglioramenti di bilancio, tuttavia molto inferiori alle previsioni, ma sembrano ora lasciare solo effetti recessivi, “senza un euro in più nel saldo del bilancio pubblico”, come dicemmo a suo tempo. Infatti, gli effetti migliorativi sui saldi prodotti dalle manovre si sono attenuati nel corso dell’anno in conseguenza dell’accentuarsi degli effetti peggiorativi sugli imponibili prodotti dalla recessione.
Sembra in conseguenza corretto quanto scrivemmo a metà 2013: “A fine anno è molto probabile che il rigore fiscale introdotto nel 2011 sulla spinta dello spread sui titoli pubblici e delle pressioni europee risulterà aver prodotto solo recessione e neppure un euro di miglioramento dei conti pubblici”. Ora sospettiamo anzi che possa aver prodotto peggioramento. Infatti, senza le manovre fiscali l’economia starebbe decisamente meglio e con essa gli imponibili; probabilmente, con imponibili maggiori e aliquote non incrementate, sarebbe più elevato anche il gettito.
Risulta inoltre attuale la domanda con cui concludemmo quel ragionamento: “A cosa serve il rigore fiscale se a causa di esso l’economia crolla e il debito pubblico accelera la crescita?”. Anzi questa domanda è ancora più interessante ora in quanto col 2014 diviene operativo il cosiddetto “Fiscal Compact”, l’obbligo per i paesi che hanno un debito in rapporto al Pil superiore al 60% di ridurre l’eccedenza del loro rapporto rispetto al vincolo di un ventesimo all’anno per vent’anni, indipendentemente dai loro risultati in termini di crescita economica. Questo vincolo risulta per tali paesi decisamente più stringente rispetto al 3% del disavanzo/Pil che era sinora il parametro chiave.
Quali implicazioni ha per l’Italia questo nuovo vincolo, del tutto assente dal dibattito politico e lasciato invece alle riflessioni dei pochissimi addetti alla materia? Per fortuna esso non ci chiede, come molti erroneamente interpretano ancora oggi, di ridurre il livello del debito pubblico e dunque abbattere drasticamente il medesimo. Il 60% di Pil di debito pubblico autorizzato dal trattato di Maastricht ammonta attualmente a 934 miliardi, esattamente 1170 miliardi in meno del livello raggiunto a novembre 2013. Se togliamo i 140 miliardi di liquidità e prestiti e facciamo il calcolo sul solo debito netto restiamo comunque 1030 miliardi sopra il limite. Qualcuno, compiendo un grave errore, interpreta che si debba ridurre questo eccesso di debito di un ventesimo all’anno per vent’anni, dunque di 50 miliardi abbondanti all’anno. Non è per fortuna così e se si facessero manovre di questa portata il Pil nominale al denominatore del rapporto cadrebbe drasticamente impedendo qualsiasi avvicinamento dell’obiettivo.
Il ragionamento corretto è invece un altro: poiché il rapporto debito/Pil dell’Italia è arrivato al 133%, vi è un eccesso di 73 punti percentuali che debbono rientrare di un ventesimo all’anno per vent’anni, dunque di 3,7 punti percentuali. Se il ragionamento viene invece fatto sul debito netto, come appare più corretto (in caso contrario l’Italia chieda subito indietro i soldi che ha dato per i meccanismi salva-stati, così rispettiamo almeno il primo anno di rientro…) l’eccesso è “solo” di 65 punti (125%-60%) il cui ventesimo corrisponde a circa 3,3 punti di riduzione. In sostanza, se il 2013 si chiude al 133%, nel 2014 dovremmo scendere sotto il 130%, nel 2015 sotto il 127% e così via. L’impresa è impossibile, come si comprende immediatamente esaminando il grafico sottostante in cui sono rappresentate le dinamiche del rapporto negli anni più recenti.
È evidente che tale obiettivo non può essere perseguito attraverso manovre imponenti di finanza pubblica. Quelle sperimentate nel 2011, corrispondenti a 5 punti di Pil in tre anni, non hanno conseguito e neppure minimamente avvicinato il pareggio di bilancio, non hanno arrestato la crescita del rapporto debito/Pil e non l’hanno neppure frenata. Anzi essa risulta in accelerazione nel biennio post manovre rispetto al biennio precedente.
Il Fiscal Compact, e purtroppo sembra che nessuno lo abbia compreso, ci chiede solo e semplicemente di ritornare alla normale, normalissima crescita economica. Immaginiamo questa crescita, dando dei numeri normali, non particolarmente ambiziosi: ipotizziamo una crescita reale dell’1,5% e un deflatore del Pil pari al 2%, i quali determinano una crescita nominale del Pil del 3,5%. Essa ci aiuta a ridurre il rapporto debito/Pil esattamente per il prodotto tra il 3,5% e il rapporto debito/Pil di partenza, quindi per circa 4,5 punti (3,5*1,33), persino più di quanto ci chieda il Fiscal Compact.
Poi bisogna tener naturalmente conto del fatto che il nostro bilancio non è in pareggio e che il rapporto deficit/Pil (in realtà fabbisogno/Pil) fa crescere in misura corrispondente il rapporto debito/Pil. Nella nostra ipotesi potremmo pertanto permetterci un deficit all’1,2% del Pil dato che 4,5-1,2=3,3, che è il nostro obiettivo annuo di riduzione.
Purtroppo l’1,2% di deficit è impossibile dato che siamo ora al 3% e non è opportuno cercare di scendere troppo velocemente. Dunque vi sarebbe un 1,8% scoperto (3%-1,2%). Potremmo però effettuare privatizzazioni annue per l’1% del Pil mentre qualche decimo di punto di risparmio ci arriverebbe dalla contrazione dello spread sui titoli pubblici. A questo punto qualche decimale residuale ci verrebbe sicuramente condonato.
Il segreto, in sostanza, è una crescita di almeno l’1,5% l’anno con la quale il Fiscal Compact verrebbe molto facilmente rispettato. Peccato che non lo abbia capito nessuno.