C’era una volta in Italia la grande impresa pubblica. E c’era anche la grande impresa privata. Poi furono fatte le privatizzazioni e dopo le privatizzazioni non vi fu più la grande impresa pubblica e neppure quella privata. Questa è una sintesi in poche righe della storia economica dell’Italia nella quale le privatizzazioni segnalano un punto di svolta, un dopo diverso dal prima, ma non sono in grado, da sole, di identificare una relazione di causalità. La grande impresa pubblica è scomparsa con le privatizzazioni, ma non si è trasformata in grande impresa privata e anche le grandi imprese private preesistenti non esistono più.



L’ultima che restava era Fiat e non è scomparsa, ma si è radicalmente trasformata, dissolvendosi in un grande gruppo nordamericano molto più grande di lei e trasferendo epicentro di interessi e sedi fuori dall’Italia. Un grande successo dell’azienda e un grande successo della globalizzazione. Ma l’Italia perde un’altra industria storica dopo che, con la cessione da parte dell’Iri dell’Alfa Romeo, impresa Fiat e industria dell’auto avevano inopportunamente finito col coincidere nel nostro Paese.



Fiat, per come siamo abituati a ricordarla, era un’azienda saldamente ancorata a Torino e strettamente avviluppata al sistema economico nazionale e anche a quello politico. Lo rivelava l’acronimo stesso: Fabbrica Italiana Automobili Torino. Era fabbrica, italiana e torinese tanto che ai tempi del massimo splendore era arrivata a darvi lavoro a ben 130mila dipendenti, e produceva auto e veicoli commerciali. Ora non è più fabbrica, pur avendo ancora a Torino e in Italia fabbriche che sono tuttavia semivuote e sottoutilizzate: i dipendenti sono scomparsi, la produzione nazionale pure.

Per ogni 100 dipendenti dei tempi d’oro non ne restano che quattro e le automobili prodotte negli stabilimenti italiani sono ora meno di un quinto di quelle realizzate nell’anno di massima produzione: meno di 400mila all’anno nell’ultimo biennio contro quasi due milioni nel 1990. Per ogni vettura realizzata in Italia già Fiat ne produceva altre tre in giro per il mondo che diventano ora dieci dopo la definitiva aggregazione con Chrysler. Certo, produce ancora auto, ma sono soprattutto auto americane, molto distanti dai gusti e dalla tradizione europea.



Ciò che è bene per Fiat è bene per l’Italia, si è detto per lungo tempo. Non era vero ai tempi e a maggior ragione non è vero ora. I governi italiani che si sono succeduti nei decenni hanno avuto sempre un occhio di riguardo per il “campione nazionale” e, oltre a favorirlo con generosi aiuti, ne hanno assecondato acquisizioni progressive di marchi nazionali (Innocenti, Lancia, Alfa, Ferrari, Maserati) che lo hanno portato a essere l’unico produttore italiano.  

L’impresa che diventa industria. Non è avvenuto in nessuno degli altri grandi paesi europei. Anche coloro che non hanno più rilevanti marchi nazionali continuano a produrre, per marchi esteri, un multiplo delle vetture che realizziamo noi: quattro volte circa la Gran Bretagna, cinque circa la Spagna. Questi paesi non hanno marchi ma hanno la produzione, noi invece abbiamo il marchio che però non ha più la produzione (o quasi) e ora non avremo neanche più il marchio, divenuto il globalizzato FCA.

Che dire? Partita persa su tutti i fronti per il Paese e per tutti i suoi tentativi maldestri di politica industriale. Partita vinta per l’azienda Fiat nell’arena della globalizzazione. Ciò che è bene per Fiat è bene per Fiat: sede legale in Olanda, sede fiscale in Gran Bretagna, epicentro produttivo e delle vendite in Nord America. Ciò che è male per l’Italia è male per l’Italia. Produzione di autovetture: nel 2013 380mila (stima), nel 1959 470mila, nel 1958 370mila. Siamo tornati indietro di 55 anni. Immatricolazioni di autovetture: nel 2013 un milione 304mila, nel 1970 un milione 364mila. Siamo tornati indietro di 44anni. Abbiamo perso un’industria. E abbiamo anche perso il reddito che ci permetteva di comprarci ciò che quell’industria era in grado di produrre. Goodbye Fiat. La Fiat si è affrancata dall’Italia, ma purtroppo l’Italia non si è affrancata dalla Fiat.

Possiamo tornare indietro, correggere gli errori compiuti, dei governi e della Fiat, e ritornare ad avere un’industria nazionale dell’auto degna di questo nome? Oppure dovremo accontentarci di produzioni di grande livello come Ferrari e Maserati che danno prestigio al Paese ma realizzano, e non potrebbe essere altrimenti, poche migliaia di unità all’anno? Purtroppo dipende tutto e solo dalla Fiat, non dai decisori pubblici, resi impotenti dalla coincidenza dell’industria con l’azienda. Riuscirà la Fiat a rilanciarsi in Italia con l’alto di gamma e coi i numeri più massicci che Alfa dovrebbe permettere? Oppure non riuscirà? Nella seconda ipotesi la soluzione più valida per il Paese sarebbe la cessione di Alfa ad un altro grande gruppo europeo. Ma siamo sicuri che sarebbe preferito dall’azienda rispetto alla scelta di chiudere? E di certo lo Stato non può scegliere al posto dell’azienda.

Non potendo chiarire questi interrogativi l’unica cosa che possiamo fare è rendere omaggio all’industria italiana dell’auto ammirandone la grande ascesa degli anni 60 e 70 e commemorandone il declino degli anni 90 e 2000, il tutto con l’ausilio di un unico grafico che copre tutti gli anni dal secondo dopoguerra a oggi e chi ci sintetizza i livelli della produzione nazionale, le immatricolazioni di veicoli nuovi, e dunque per differenza tra le due grandezze l’export netto o l’import netto, e la distinzione tra immatricolazioni di veicoli di marca nazionale e veicoli di marca estera. In uno solo grafico abbiamo una grande sintesi di tutte le scelte nazionali di produzione e di consumo.

 

Produzione.

L’industria dell’auto riparte da zero nel secondo dopoguerra. Nel 1946 vengono prodotte 11mila vetture, immatricolate 7mila. L’export netto è dunque di 4mila. Le auto straniere importate sono quattro. Quattro unità, non quattro migliaia. La produzione si sviluppa per tutti gli anni 50 e nel 1960 vengono superate le 500mila unità. Negli anni 60 la crescita accelera: il milione di unità viene superato nel 1963 (con un raddoppio della produzione in soli tre anni) e il milione e mezzo nel 1968. Poi l’autunno caldo rallenta la crescita e la doppia crisi petrolifera del 1973 e del 1979 abbatte la produzione sotto il milione e mezzo. Bisogna attendere la seconda metà del decennio 80 per rivedere una seria ripresa che porta il settore sotto la soglia dei due milioni di vetture.

È il 1989 e poco prima, con l’acquisizione dell’Alfa, la maggiore impresa nazionale si è fatta industria. È anche l’inizio del declino, favorito dalla crisi italiana del 1992 e anni seguenti. Tra il 1994 e il 2000 la produzione oscilla attorno al milione e 400mila unità, poi la grande caduta degli anni seguenti che nulla ha a che vedere con la successiva recessione economica. Si tratta di una pura scelta delocalizzativa che avviene sotto un governo di centrodestra che si dichiara, a parole, del tutto favorevole all’impresa e alla crescita. Il 2003 è l’ultimo anno a vedere più di un milione di auto prodotte. Nel biennio 2012-13 siamo invece sotto le 400mila, il livello degli ultimi anni 50, un quinto del 1989.

 

Domanda.

Dal secondo dopoguerra al 1979 il nostro Paese immatricola stabilmente un numero di vetture sensibilmente inferiore rispetto alla produzione nazionale ed è dunque un esportatore netto. Per tutti gli anni 50, inoltre, non vi sono sostanziali importazioni di vetture estere che iniziano invece ad affacciarsi sul mercato nei primi anni 60. Nel 1960 l’Italia esporta (al netto delle importazioni) un terzo della produzione nazionale, nel 1970 un quinto. Dal 1980 diventa importatrice netta. Nel 1989 le immatricolazioni di vetture di marca nazionale raggiungono il massimo storico di 1,3 milioni su circa 2,3 milioni di immatricolazioni totali. L’anno successivo le marche nazionali, coincidenti col gruppo Fiat, scendono sotto il 50% come quota di mercato e non riusciranno mai più a risalirvi.

L’impresa che diventa industria segna l’inizio del declino: come quota di mercato e come livello assoluto delle vendite. Il declino della produzione in Italia è seguito più in basso da un declino parallelo delle vendite in Italia. Meno Fiat produce in Italia, meno Fiat vende in Italia. Questo dovrebbe essere d’insegnamento per il gruppo: gli italiani non hanno mai comprato dal gruppo Fiat neppure una vettura in più rispetto alla produzione che essa ha realizzato nel nostro Paese. Addirittura negli ultimi sei anni la declinante domanda di vetture Fiat è risultata esattamente coincidente con la declinante produzione di vetture Fiat in Italia. Sarà così anche in futuro?

Gli italiani, impoveriti dalla crisi, comprano un numero sempre minore di auto nuove, delle quali oltre il 70% appartiene a marche estere. Nel 2013 abbiamo superato di poche migliaia il milione e 300mila. Rispetto ai 2,5 milioni del 2007 siamo a poco sopra la metà. L’Italia ha perso, per scelte miopi dei governi e per scelte strategiche dell’impresa che si era fatta industria, l’industria nazionale. Gli italiani hanno perso il reddito che gli serviva per cambiarsi l’auto e probabilmente hanno perso anche la voglia di farlo. Riusciremo a ripartire come già facemmo nel secondo dopoguerra? Forse, ma le premesse sembrano meno favorevoli.

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