Ha suscitato grande scalpore e opposizione la legge, approvata pochi giorni fa, che ha, tra tante e differenti previsioni normative, riformato le modalità di partecipazione al capitale della Banca d’Italia. Premesso che in diversi momenti il contrasto in sede parlamentare al provvedimento ha assunto forme e modi che non possono essere in alcun modo condivisi in un Paese come il nostro, che dovrebbe e vorrebbe essere civile, la disapprovazione verso di essi non può tradursi in un’automatica e acritica condivisione del provvedimento. Esso appare anzi di difficile accettabilità sia che lo si interpreti alla luce dei principi normativi consolidati, sia del buon senso economico. Sul primo versante il provvedimento è stato efficacemente criticato su queste pagine in diversi interventi di Mario Esposito, i quali sono stati per me illuminanti e che condivido nella loro interezza. Mi limito pertanto a svolgere alcune considerazioni, a essi complementari, sotto il semplice profilo del buon senso economico.
Per comprendere meglio i termini del problema è opportuno inquadrare preliminarmente l’istituzione Banca d’Italia all’interno della mappa delle differenti tipologie di istituzioni, private e pubbliche, esistenti in Italia e negli altri paesi a democrazia liberale. Prima ancora della dicotomia pubblico-privato è tuttavia rilevante la distinzione tra le istituzioni/organizzazioni che sono finalizzate al profitto e quelle che non lo sono. Le imprese private, spesso organizzate in forma societaria, rappresentano i principali esempi della prima tipologia: l’attività economica, finanziata attraverso i capitali messi a disposizione dei soci, genera utili, i quali sono distribuiti tra gli azionisti sotto forma di dividendi.
Qual è il presupposto logico al fatto che un soggetto tragga beneficio dagli utili? Evidentemente il fatto che gli utili siano stati prodotti impiegando il capitale che anche quello specifico soggetto ha messo a disposizione. La catena esplicativa, causale e temporale, è la seguente: (1) conferimento del capitale; (2) impiego del capitale; (3) realizzazione del profitto grazie al capitale; (4) remunerazione del capitale attraverso il dividendo. In questo modo il cerchio si chiude. Può anche accadere che a beneficiare di una quota dei profitti realizzati siano anche i manager dell’azienda, ma è evidente che si tratta di un remunerazione premiante rispetto ai risultati del loro impegno gestionale. Non vi sono ragioni differenti dall’aver apportato capitale e dall’aver contribuito a una profittevole gestione d’impresa per beneficiare degli utili conseguiti.
Accanto alle organizzazioni volte al profitto ve ne sono tuttavia anche altre che non perseguono questo obiettivo. Un tipico esempio è dato dalle fondazioni. Cosa sono le fondazioni? La fondazione è un ente, solitamente dotato di personalità giuridica, costituito da un patrimonio il quale è stato conferito, ad esempio attraverso un lascito testamentario, per il conseguimento di un obiettivo specifico (come l’assegnazione dei noti premi annuali da parte di Alfred Nobel). Negli ordinamenti dei paesi del sud Europa, tra cui l’Italia, l’obiettivo è necessariamente di utilità sociale (le Onlus), mentre in altre realtà più anche essere di utilità privata ma in ogni caso non di tipo lucrativo, la fondazione è “not for profit”. Questo vincolo impone che la fondazione non possa distribuire dividendi anche qualora, attraverso la sua attività, realizzi profitti. In tale evenienza essi debbono essere convogliati verso la finalità istituzionale perseguita. Infine, anche nell’ipotesi che l’istituzione sia sciolta, il patrimonio sussistente non è restituito ai suoi promotori ma destinato, in base alle previsioni statutarie, a specifiche finalità di interesse collettivo, devoluto a istituzioni con finalità analoghe o conferito allo Stato. In sintesi, ciò che è nato “not for profit” non si trasforma mai in qualcosa di opposto.
La dicotomia di organizzazioni che abbiamo appena esaminato per il settore privato si ripropone in maniera equivalente nel settore pubblico. Qui abbiamo infatti sia organizzazioni societarie che possono produrre profitti ed erogare dividendi, sia, principalmente, organizzazioni regolate dal diritto pubblico che sono finalizzate a compiti di carattere collettivo (quelle che chiamiamo amministrazioni pubbliche).
Cos’è esattamente la Banca d’Italia tra queste quattro tipologie? Nessuna. La Banca d’Italia è in realtà un ircocervo: non rientra in nessuna delle tipologie considerate e nello stesso tempo non ne costituisce neppure una ulteriore. Si può solo dire cosa non è e, successivamente, per far maggiore chiarezza, ricordare che cosa fa esattamente. Non è sicuramente un ente “for profit” e non è sicuramente un ente privato. Sono dunque escluse le prime tre delle quattro categorie sopra ricordate. Tuttavia non rientra neppure nella quarta. Non è infatti una pubblica amministrazione, pur essendo inequivocabilmente un ente di diritto pubblico e già questo dovrebbe essere sufficiente a sostenere che non debba erogare dividendi. Come si può infatti giustificare che un ente di diritto pubblico “not for profit” possa farlo?
Giova ricordare al riguardo la fattispecie giuspubblicistica più vicina alle organizzazioni societarie per tipologia di attività che vi veniva solitamente svolta: l’ente pubblico economico. Esso ha rappresentato una forma piuttosto diffusa in passato di organizzazione di attività produttiva pubblica che, pur destinata al mercato, aveva tuttavia per obiettivo la sola economicità della gestione, il recupero dei costi di produzione attraverso i ricavi da mercato, e non il profitto, per il quale, nell’eventualità che venisse generato, non era prevista l’erogabilità tramite dividendo. Quando nel 1992 il governo Amato decise di avviare la stagione delle privatizzazioni delle imprese pubbliche, si ritrovò pertanto con molte di esse organizzate sottoforma di ente pubblico economico (come Enel, Eni, Iri, Ina, Imi, FS, ecc.), fattispecie che non permetteva né di rappresentare il capitale tramite azioni, né di erogare dividendo, due caratteristiche indispensabili per il processo in oggetto. Fu dunque necessario prevederne preliminarmente la societarizzazione per poi avviarne anche la privatizzazione. In tal modo si poterono cedere sul mercato quote azionarie e remunerare successivamente i sottoscrittori tramite i dividendi.
La Banca d’Italia è un ircocervo per due ragioni principali: (1) è un ente di diritto pubblico, come stabilito dalla legge bancaria del 1936, ma il suo capitale, fissato dalla medesima legge in 300 milioni di lire (300 mila quote dal valore nominale di 1000 lire), equivalenti a 156 mila euro, è attualmente detenuto per il 94% da banche e istituzioni finanziarie di diritto privato controllate da azionisti privati; (2) è un ente con finalità pubbliche, non profit, ma distribuisce annualmente dividendi ai suoi “quotisti” privati.
La convinzione, già espressa in precedenza nel caso generale, che un ente di diritto pubblico, non profit, non debba erogare dividendi si rafforza ulteriormente nel caso specifico quando esaminiamo le funzioni assegnate alla Banca d’Italia. Essa è principalmente: (1) autorità di regolazione e vigilanza delle banche delle istituzioni e dei mercati finanziari; (2) nell’ambito del sistema europeo delle banche centrali al cui vertice è la Bce, ha il compito di offrire base monetaria.
Per quanto riguarda il primo gruppo di compiti esso è assimilabile a quello svolto in altri settori da Autorità di regolazione specifiche, le quali condividono il requisito indispensabile dell’indipendenza dai regolati (oltre che dal potere esecutivo). Possiamo dire che da questo punto di vista la Banca d’Italia stia al settore finanziario come l’Autorità per l’energia elettrica e il gas sta ai due mercati da cui prende il nome. Propongo questo raffronto per sottolineare una doppia anomalia. I “quotisti” di Banca d’Italia sono anche soggetti sui quali essi esercita la sua vigilanza e i suoi poteri regolatori. Il “regolatore” è partecipato da alcuni dei suoi regolati e versa a essi dividendi annui. È come se alcune imprese elettriche e del gas fossero “quotiste” dell’Autorità omonima e la stessa assegnasse loro annualmente una parte del suo risultato economico. Inconcepibile. Non è così in Italia, per fortuna, e neppure in nessun’altra parte al mondo. Anzi avviene un fenomeno finanziario di segno opposto: i costi di funzionamento dell’Autorità per l’energia elettrica sono finanziati tramite contributi annuali posti a carico dei soggetti regolati. Sono i regolati che coprono gli oneri del regolatore, non il regolatore che finanzia i regolati. Per quanto riguarda i costi che la Banca d’Italia sostiene per l’esercizio delle sue funzioni di vigilanza e regolazione sulle istituzioni finanziarie sarebbe dunque corretto che essi fossero ripartiti annualmente tra le medesime, in maniera analoga a quanto previsto per le altre autorità di regolazione.
Ma l’aspetto più interessante ai fini della nostra analisi è l’attività tipica svolta da ogni banca centrale: l’offerta di base monetaria al sistema economico. La Banca d’Italia può acquistare (e vendere) sui relativi mercati valute estere, oro, titoli pubblici nazionali e concedere finanziamenti alle banche. Realizzando queste operazioni consegue margini positivi (interessi attivi, margini su valute, ecc.) che hanno tre differenti possibili destinazioni: sono posti a riserva e restano dunque a disposizione come mezzi propri nello stato patrimoniale, sono assegnati allo Stato, sono distribuiti ai quotisti come dividendo.
Quale merito hanno i quotisti per giustificare l’attribuzione del dividendo? Hanno contribuito attivamente alle scelte gestionali che quei guadagni hanno generato? Ovviamente no. I quotisti, che sono anche soggetti regolati, non sono rappresentati negli organi dell’istituto, non sarebbe proprio il caso, e non partecipano ovviamente alla gestione. Può darsi allora che l’istituto abbia realizzato quei guadagni impiegando i capitali originariamente conferiti dai quotisti? Neppure. E non solo perché sono di importo esiguo. Quando la Banca d’Italia compra attività, come oro, valute o titoli pubblici, non ha bisogno di farsi dare passività dai soci o da prestatori per finanziare l’operazione. Ha infatti il potere di generarle, di finanziarle attraverso la creazione di base monetaria. È una facoltà pubblica che le è assegnata in regime di monopolio e i proventi netti attraverso di essa realizzati non hanno alcun nesso causale derivante da alcun possibile ruolo svolto dai suoi quotisti. Si tratta di una rendita monopolistica, derivante dall’esercizio di pubblici poteri, non dall’impiego discrezionale e rischioso di capitale dei soci. Espresso in maniera più brutale, con i guadagni realizzati dalla Banca d’Italia i partecipanti al suo capitale non c’entrano proprio nulla.
Ora è invece accaduto che con la legge n. 5 del 2014, di conversione di un frettoloso decreto legge (il d.l. 133/2013) che si occupava principalmente del tormentone dell’Imu, le riserve patrimoniali della Banca d’Italia, frutto dell’accumulo nel tempo di profitti non distribuiti che sono stati conseguiti svolgendo una funzione pubblica, sono state trasferite a capitale sociale elevando il medesimo da 156 mila euro (i 300 milioni del 1936) a 7,5 miliardi, con una rivalutazione del 4708%. Le vecchie quote di partecipazione da 1000 lire ciascuna valgono ora 25000 euro. Il problema è che nella forma di riserve patrimoniali esse erano valori pubblici, mentre nella forma di quote rivalutate del capitale diventano valori privati.
Dato che i quotisti della Banca d’Italia non hanno alcun merito nella produzione di questi valori possiamo dire che si è trattato di un gran bel regalo? E non regge in alcun modo, è anzi un’offesa all’intelligenza, l’argomentazione che né il cittadino-contribuente ci perde, né sono posti oneri a carico dello Stato. Sono entrambe affermazioni vere, ma così come i cittadini non esauriscono l’area del privato, lo Stato non esaurisce l’area del pubblico. Qui vi sono dei privati, le banche, che con poche righe su una norma di legge guadagnano senza merito 7.344 milioni di euro. A chi sono sottratti, dato che le leggi non creano risorse ma si limitano a trasferirle? Allo Stato no, ma al pubblico, alla collettività nazionale sì. I principi della nostra Costituzione lo permettono?