Dopo la parola “governo” il sostantivo “tasse” è ritornato a essere il più usato in questi giorni nel dibattito politico ed economico, superando di molte lunghezze persino la voce “crescita”. La responsabilità del ritorno in primo piano della questione è senz’altro da attribuire al nuovo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, il quale, intervenendo domenica scorsa a una trasmissione televisiva, ha dichiarato: «I Bot sono rendite e se una signora anziana ne ha messi da parte per 100 mila euro, che magari le rendono un tot di soldi, non credo che abbia un problema di salute se le facciamo pagare 25-30 euro in più. Vediamo da caso a caso». Ha inoltre enunciato il principio che «chi ha di più deve pagare di più» e che tali risorse «vanno destinate alle fasce più deboli».
Purtroppo questo ragionamento ha diversi punti deboli. Il primo di essi, ma non il più rilevante, riguarda il gettito: siamo sicuri che l’ulteriore inasprimento della tassazione sui proventi delle attività finanziarie sia in grado di generare gettito sufficiente rispetto a quello necessario all’obiettivo del governo di ridurre in maniera percettibile il cuneo fiscale sul lavoro? E il secondo: siamo sicuri che questa modalità di riduzione di tasse tramite aumenti di altre tasse, dunque una trasformazione di tasse, sia efficace nel conseguire gli obiettivi prefissati? Infine, il terzo: siamo sicuri che tutta l’ipotizzata manovra sia equa? La mia risposta è negativa per tutti i tre quesiti, dunque proverò ad argomentarne il perché.
In primo luogo, Delrio usa come esempio un caso specifico che non si presta allo scopo, dato che, se sviluppato, è in grado di dimostrare l’esatto contrario di quel che egli voleva dimostrare. Mettiamoci allora nei panni della vecchina benestante che può contare su 100 mila euro risparmiati e prestati allo Stato tramite l’acquisto di Bot (o altri titoli pubblici di durata residua equivalente) e facciamole i conti in tasca (a lei e, contemporaneamente, a Delrio nei panni dello Stato). Quanto reddito ottiene in un anno la nostra vecchina dal suo tesoretto in Bot? Se guardiamo ai rendimenti dei titoli di Stato, rilevati mensilmente dalle statistiche della Banca d’Italia, scopriamo che a gennaio 2014 il rendimento medio lordo dei titoli pubblici con scadenza sino a un anno e mezzo era dello 0,853% (ma nelle ultime settimane i tassi sono scesi). Dato che i Bot sono al più di durata annuale, questo è un rendimento massimo (qui la tabella rendimenti della Banca d’Italia). Dunque la nostra vecchina al massimo potrà incassare dopo un anno 853 euro lordi.
Quanti di essi vengono già ora ripresi indietro dal fisco? Con le aliquote in vigore il 12,5%, per effetto dell’imposta sostitutiva sugli interessi, a cui va aggiunto il 2 per mille dello stock di risparmio come imposta di bollo sul “dossier titoli”. Si tratta rispettivamente di 107 euro e di 200 euro, per un totale di 307 euro. I 307 euro rappresentano già ora il 36% del suo rendimento totale di 853 euro. A lei resta la differenza, il restante 64%, pari a 546 in euro.
Attenzione, però, si tratta ancora di un valore teorico. Infatti, la nostra vecchina per disporre dei Bot ha dovuto acquistarli, pagando una commissione bancaria non trascurabile. Dobbiamo quindi detrarre dal ricavato le commissioni praticate dalla sua banca per l’acquisto del titolo e per la tenuta del dossier: in base a questa indagine Bocconi-Corriere Economia possiamo stimare 320 euro totali. Proviamo allora a riepilogare: su un rendimento annuo (ottimistico) di 853 euro, 320 euro, pari al 38% vanno all’istituto di credito intermediario, 307, pari al 36%, tornano indietro al fisco e, infine, 226 euro, pari al 26%, restano alla nostra vecchina. Come cambia questa ripartizione se l’aliquota dell’imposta sostitutiva dovesse salire al 20% (che è già l’aliquota in vigore per le attività finanziare diverse da quelle pubbliche)? In questo caso il fisco si prenderebbe 371 euro e alla vecchina resterebbe un tesoretto di ben 162 euro (su 100 mila euro di sudati risparmi), pari a un rendimento dello 0,16%.
Peccato che la nostra vecchina per mantenere il potere d’acquisto dei suoi risparmi dovrebbe ottenere un rendimento netto pari almeno al tasso d’inflazione, che ora è molto basso, ma che altrettanto non è stato negli anni addietro: a fronte di un +1,2% nel 2013 la crescita dei prezzi è risultata infatti del 3% nel 2012 e del 2,8% nel 2011. Nel triennio in media la perdita di potere d’acquisto è stata del 2,33% all’anno. Il rendimento lordo dei Bot è sempre stato fortemente negativo in termini reali in questo periodo, ma il fisco ha tassato egualmente i proventi nominali incassati dalla vecchina, di fatto espropriandone una parte dei risparmi.
Anche se l’aliquota del 12,5% non sembra elevata, bisogna sempre ricordare che si applica ai proventi nominali, non a quelli reali. Pertanto se un titolo più remunerativo dei Bot perché a più lunga scadenza rende il 3% e l’inflazione è al 2%, il risparmiatore pagherà il 12,5% sul 3%, dunque lo 0,375%, più lo 0,2% di imposta di bollo sullo stock di risparmio, per un totale dello 0,575%. Il suo rendimento si riduce pertanto dal 3% lordo al 2,425% netto il quale, tolto il 2% d’inflazione, si trasforma in un misero 0,425% reale (e tende a sparire se conteggiamo anche le spese bancarie). Se invece il titolo in oggetto è un’obbligazione privata per la quale l’aliquota fiscale è già ora al 20%, il rendimento lordo del 3% si trasforma in rendimento netto nominale del 2,2% e netto reale dello 0,2%, in pratica meno dei costi dell’intermediario bancario.
La sintesi è molto semplice: chi propone un ritocco verso l’alto delle aliquote sulle rendite finanziarie dovrebbe dedicarsi a un breve ripasso dell’art. 47 della Costituzione il quale, da 56 anni a questa parte, così recita: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme (…) Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. Ma come può il risparmiatore popolare accedere alla proprietà attraverso il suo risparmio se tutti i frutti del medesimo gli vengono portati via dal fisco e dagli intermediari bancari? Con questo argomento abbiamo risposto alla terza domanda formulata all’inizio dell’articolo: già l’attuale tassazione delle rendite non è equa e incrementare le aliquote finirebbe con l’accentuarne notevolmente l’iniquità.
Al primo quesito si risponde invece con grande facilità: quante sono le vecchine con 100 mila euro di Bot alle quali prendere 25 euro all’anno in più di tasse? E quanto ne servono per mettere assieme i 10 miliardi di gettito necessari per ridurre il cuneo fiscale? Temiamo che ne servirebbero davvero troppe e anche estendendo il prelievo a tutto il pubblico dei risparmiatori i conti non tornano comunque. Considerando che i tre quarti dei 24 milioni di famiglie italiane non posseggono strumenti finanziari diversi dai conti correnti e depositi bancari e postali, i quali hanno rendimenti trascurabili in termini nominali e negativi in termini reali, quanto sarebbe necessario prelevare ai restanti sei milioni di famiglie per mettere assieme la cifra richiesta? In media esattamente 1.667 euro, dunque un po’ più dei 25 euro ipotizzati da Delrio.
Si arriva così alla seconda domanda, relativa al fatto se una riduzione di tasse finanziata con aumenti di tasse possa funzionare. Qui bisogna dire che sembra vigere una sorta di versione fiscale del principio di Lavoisier: in Italia tutte le tasse si creano, nessuna si distrugge, tutt’al più qualcuna si trasforma. Il cuneo fiscale deve essere indiscutibilmente ridotto, dato che rispetto ai paesi europei competitori (Est Europa esclusa) è più elevato almeno di 4-5 punti percentuali e sino a un massimo che supera i dieci punti. Ma per capire come si può ridurre forse sarebbe meglio domandarci preventivamente perché ora è così alto. Cosa finanzia esattamente l’eccesso di prelievo contributivo sul fattore lavoro?
La risposta è ben nota e documentata attraverso le statistiche di finanza pubblica: troppe pensioni, concesse in passato in età troppo giovane e, soprattutto, troppo elevate rispetto ai contributi versati nel periodo lavorativo. Questa è la malattia della nostra previdenza e la cura non è certo un distraente aumento di tasse variegate per continuare a finanziare la voragine pensionistica.