Quale valutazione possiamo dare, a caldo, dei provvedimenti annunciati dal primo ministro Renzi dopo il Consiglio dei ministri di ieri, il primo chiamato a deliberare su importanti questioni di politica economica? In grande sintesi, dato che in dettaglio avremo tempo di parlarne quando si conosceranno gli esatti dispositivi normativi, possiamo parlare di: 1) una scelta discutibile: ridurre del 10% l’Irap sulle imprese finanziandola con l’aumento dell’imposta sostitutiva sui rendimenti delle attività finanziarie dal 20% al 26% (e lasciando invariata la tassazione sui titoli pubblici); 2) una scelta buona ma che poteva essere migliore: ridurre l’Irpef sui redditi da lavori medi e bassi; 3) una scelta ottima ma che rischia di essere attuata in maniera contorta e problematica: lo sblocco e pagamento rapido dei debiti commerciali arretrati della Pa per 68 miliardi.
Prima di esaminare ognuna di queste scelte conviene tuttavia partire da una riflessione generale: l’intera manovra è resa possibile dalla disponibilità di 10 miliardi di risorse, ottenibili principalmente attraverso risparmi di spesa, e dunque per effetto della spending review di Cottarelli. Sembra sufficientemente garantito che si tratti di una disponibilità permanente, dotata di una copertura non destinata a cadere col tempo per essere sostituita da interventi di segno opposto dal medesimo lato del bilancio pubblico, sempre quello dell’aumento delle entrate. Il ministro Padoan ha assicurato nei giorni scorsi, in occasione della riunione dell’Eurogruppo, che “il taglio del cuneo fiscale sarà coperto in modo permanente da tagli”, che saranno resi possibili da una revisione dei meccanismi di spesa del settore pubblico.
Appare dunque cruciale a tale fine l’esito della spendig review guidata da Carlo Cottarelli, della quale il commissario straordinario ha relazionato sempre ieri in commissione parlamentare. Non sono invece ulteriormente proponibili tagli drastici di stanziamenti, da realizzarsi alla Tremonti applicando semplicemente le forbici alle poste di bilancio. Essi non sono più opportuni né possibili, salvo per il particolare settore dei programmi di spesa militare.
Infine, un aiuto non trascurabile, potenzialmente crescente nel tempo se proseguono le tendenze in atto, arriva dalla riduzione del costo del debito, ragionevolmente prevedibile osservando il calo contemporaneo dei tassi e dello spread. Una nota Ansa dell’altro ieri confermava queste tre come le voci maggiori a cui attingere: “I capitoli, su cui il governo è al lavoro per definire le coperture, sono la spending review, dalla quale dovrebbero arrivare 5 miliardi, risparmi della spesa per interessi sul debito quantificati in 3 miliardi e una quota dovrebbe arrivare dai tagli alle spese militari, F35 inclusi”.
Questo è lo scenario nel quale si inserisce la pervenuta possibilità da parte del governo di iniziare a ridurre da qualche parte la pressione fiscale. Considerando che la maggior parte del gettito fiscale arriva dal cuneo fiscale e che esso è di ostacolo all’impiego del fattore lavoro da parte delle imprese, era evidente che si dovesse intervenire proprio sul cuneo. Ma da quale lato è più opportuno ridurre il cuneo fiscale? Da quello delle imprese, alleggerendo l’Irap e/o i contributi sociali a loro carico, oppure da quello dei lavoratori, alleggerendo l’Irpef?
In base alle informazioni disponibili prima del consiglio sembrava che il governo fosse orientato alla seconda ipotesi, preferendo l’attenuazione dell’Irpef sui redditi da lavoro rispetto alla riduzione richiesta da Confindustria degli oneri a carico delle imprese. Considerando l’attuale situazione economica questa risultava una scelta corretta. È evidente che il cuneo fiscale va ridotto anche dal lato delle imprese, ma oggi un minor costo del lavoro non risulterebbe sufficiente a incentivare le imprese ad assumere. Prima debbono ripartire i consumi affinché questa scelta abbia senso. E in mezzo debbono soprattutto riprendere gli investimenti netti, specie quelli in macchinari e attrezzature, che si sono azzerati nell’ultimo biennio. Oggi se per caso le imprese decidessero di assumere non avrebbero infatti neppure gli impianti adatti a cui far lavorare i nuovi dipendenti. Bisognerebbe quindi detassare gli investimenti netti delle imprese prima ancora di ridurre il cuneo fiscale dal loro lato.
La scelta principale adottata è stata pertanto quella di ridurre il cuneo dal lato dei lavoratori, intervenendo sull’Irpef. Premesso che una prima riduzione della pressione fiscale che beneficia il fattore lavoro, finanziata in maniera permanente con riduzioni equivalenti di spesa pubblica, è apprezzabile, si tratta di vedere se rappresenta un intervento di ammontare significativo oppure no. A Matteo Renzi è stata attribuita questa affermazione: “Per la prima volta sarà messa nelle tasche degli italiani una significativa quantità di denaro”. Ha ragione a sostenere che sia significativa? Se il punto di vista è quello delle casse pubbliche indubbiamente sì: 10 miliardi all’anno in un solo blocco di provvedimenti sono rilevanti perché non vanno rapportati agli 800 miliardi di dimensioni totali del bilancio pubblico dal lato della spesa, ma ai 45 miliardi di disavanzo, di cui non ci si può permettere una risalita. Se il punto di vista è invece quello delle casse private, il reddito disponibile dei lavoratori o il costo del lavoro delle imprese, la valutazione si attenua di molto: dal punto di vista dei lavoratori si tratta di 600 euro all’anno, se uniformemente ripartiti sui 16,7 milioni di unità di lavoro dipendenti, dunque 50 euro al mese; per le imprese è invece l’1,5% dei 666 miliardi annui di costo totale dei dipendenti. Il governo ha comunicato che ne beneficerà il 60% dei lavoratori a reddito più basso, dunque il vantaggio sarà di 1000 euro l’anno, equivalenti a 83 euro netti al mese.
È evidente che si dovrebbe fare molto di più, ma riuscire a farlo dipende esclusivamente dalla capacità del settore pubblico di rivedere i suoi costi e le sue performance: riuscire a produrre di più e meglio con meno costi e restituire i risparmi in tal modo ottenuti a cittadini e imprese. Questa, come ben sappiamo, è la spending review. Dal punto di vista invece degli aspetti distributivi e dell’equità occorre dire che il pacchetto va in aiuto di chi il lavoro per fortuna ce l’ha, ma purtroppo non di chi non ha neppure quello. Ed egualmente ha necessità di consumare per soddisfare bisogni essenziali. Allora sarebbe forse stato meglio in questa fase della crisi non ridurre neppure l’Irpef, ma utilizzare le risorse reperite nel bilancio per abbattere di due punti percentuali l’aliquota Iva più bassa, quella che grava sui consumi essenziali di cui anche i cittadini che non hanno reddito hanno invece assoluto bisogno.
Questa era la scelta buona del governo Renzi, che poteva essere anche migliore. Ma ora vengono le note dolenti: che senso ha ridurre del 10% l’Irap sulle imprese, finanziandola con l’aumento dell’imposta sostitutiva sui rendimenti delle attività finanziarie dal 20% al 26% ma lasciando invariata la tassazione sui titoli pubblici? È palesemente un provvedimento posticcio, non originariamente previsto e probabilmente introdotto a seguito delle pressanti richieste di Confindustria. Purtroppo introduce una tripla iniquità: 1) tra le imprese che ne beneficiano e i lavoratori autonomi che sembrerebbero non beneficiarne; 2) tra le tipologie di attività finanziare emesse dal settore privato, penalizzate con l’aliquota del 26%, e i titoli pubblici e postali, agevolati con aliquota invariata al 12,5%; 3) a danno dei risparmiatori, di fatti espropriati, in barba all’art. 47 della Costituzione che prescrive di tutelare il risparmio, del rendimento reale dei medesimi.
Non bisogna infatti dimenticare che accanto alla nuova aliquota del 26% sul rendimento i risparmiatori pagheranno anche l’aliquota patrimoniale del 2 per mille sullo stock di risparmio. In totale se ne va ben il 46% del rendimento se il rendimento del titolo è l’1%, il 36% se il rendimento è del 2%! E non è finita qui: le tasse portano via quasi metà del rendimento nominale, non di quello reale. Poi bisogna aggiungere il potere d’acquisto portato via dall’inflazione. Immaginiamo un titolo che rende il 2% nominale: le tasse se ne portano via più di un terzo; se l’inflazione è superiore all1,5% essa si porta via anche quell’altro poco che resta. Lo stesso accade con rendimento al 3% e inflazione al 2%. Dunque la tassazione così riformata si traduce in un esproprio del rendimento se l’inflazione è molto bassa e persino nell’esproprio anche di una quota del capitale se l’inflazione è poco più alta (o il rendimento del titolo molto basso). Ho seri dubbi che si tratti di scelte compatibili col dettato costituzionale.
Infine, solo un cenno, con riserva di ritornarci in altra occasione, alla scelta ottima dello sblocco integrale e pagamento rapido dei debiti commerciali arretrati della Pa. Se effettuato per davvero questo è lo shock macroeconomico che può essere in grado di riaccendere un po’ di ripresa, non i 10 miliardi di sgravi fiscali Irpef. Ma per favore non attuiamolo attraverso meccanismi contorti e costosi che passano attraverso la Cassa depositi e prestiti e le banche. Allungherebbero solo inutilmente i tempi e non rappresenterebbero un vero e proprio pagamento: sarebbero solo il modo attraverso cui i creditori della Pa verrebbero messi in grado di farsi prestare i soldi da qualcuno di diverso dal loro debitore. Magari pagandoci sopra anche oneri e commissioni. I debiti sono della Pa? Se li paghi allora la Pa semplicemente emettendo titoli pubblici quanto basta. Per fortuna è in grado di emetterli a rendimenti molto bassi.
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