L’Istat ha comunicato i primi dati ufficiali dell’intero 2013 relativi al Pil, al disavanzo pubblico e al debito. Nessuno di essi giunge inatteso, anzi ognuno conferma le previsioni consolidate che già in diverse occasioni abbiamo avuto modo di commentare. Eppure per la prima volta vediamo tutti i numeri chiave dell’economia allineati in bella fila ed essi hanno l’aspetto di altrettanti soldatini acciaccati, come se fossero reduci da una dura battaglia e probabilmente in procinto di affrontarne una nuova. L’impressione non è certo esaltante.
Da quale di essi iniziamo la rassegna? Il meno peggio in arnese è il disavanzo pubblico: 47,3 miliardi nel 2013, corrispondenti al 3% del Pil, esattamente come nell’anno precedente. Questo era il risultato minimo per qualificarci in Europa: negli anni precedenti il 2012 non lo avevamo raggiunto e ci avevano aperto una procedura d’infrazione da cui eravamo usciti da poco. Non era proprio possibile mancarlo. Ma siamo sicuri che dietro il rispetto formale del parametro tutti i conti pubblici siano a posto senza possibilità di cattive soprese? Un primo piccolo allarme viene proprio dai dati Istat: nonostante il disavanzo abbia rispettato il 3%, l’avanzo primario, che è il saldo dei conti pubblici che non include la spesa per interessi sul debito, è peggiorato rispetto al 2012 risultando pari solo al 2,2% contro il precedente 2,5% (grafico a fondo pagina). Questo vuol dire che il risparmio (che ci aspettavamo osservando il calo dello spread) sugli interessi sul debito dal 5,5% al 5,2% del Pil è stato interamente assorbito dal saldo delle restanti poste di bilancio. Minori entrate o maggiori spese? Quale delle due ipotesi ne rappresenta la causa?
Principalmente la prima: infatti le uscite totali del settore pubblico sono state pari nel 2013 al 51,2% del Pil, 0,2 punti percentuali in meno rispetto al 2012, con il pubblico impiego che è stato chiamato al sacrificio più consistente. Questo vuol dire che se togliamo la spesa per interessi, il resto della spesa pubblica è aumentato di 0,1 punti. Invece il costo dei dipendenti pubblici è diminuito dello 0,7%, riduzione nominale, e dunque assai maggiore in termini reali, che si aggiunge al -1,9% dell’anno precedente, per effetto, come ricorda l’Istat, sia del calo dei dipendenti (le unità di lavoro), sia del protrarsi del blocco dei contratti di lavoro. Sul versante opposto la pressione fiscale, data dalla somma del gettito delle imposte dirette, indirette, in conto capitale e dei contributi sociali in rapporto al Pil, si è attestata al 43,8%, anch’essa in diminuzione di 0,2 punti, mentre le entrate complessive, pari al 48,2% del Pil, sono diminuite dello 0,3%. Tra le imposte risultano in riduzione le indirette per effetto dei minori introiti di Iva e accise (ai quali si aggiunge l’effetto dell’abbattimento dell’Imu prima casa). Solo in parte questa riduzione è compensata dal maggior gettito dell’Ires e dell’imposta sui redditi delle attività finanziarie.
Appaiato al soldatino del deficit, e solo in parte da esso protetto, vi è quello assai più malconcio del debito: siamo arrivati al livello massimo da quando l’Istat elabora serie storiche confrontabili, cioè dal 1970: il 132,6% del Pil, quasi cinque punti in più dell’anno precedente. Se prescindiamo dalla perfetta confrontabilità dei dati nel tempo, possiamo scoprire che nei 154 anni di storia d’Italia solo in un’occasione si è avuto un valore simile all’interno di una tendenza alla crescita: il 130% fu superato nel 1919, l’anno successivo alla fine della Prima guerra mondiale.
Ma il soldatino di gran lunga più acciaccato è senz’altro il Pil, diminuito in termini reali dell’1,9% nel 2013, più delle previsioni governative che si erano fermate al -1,7%, dopo aver già perso il 2,4% alla precedente battaglia, quella del 2012 (vedasi il pprimo grafico a fondo pagina). Sono più di quattro punti in due anni che si aggiungono ai quasi sette del biennio 2008-09 (di cui solo due recuperati nel biennio intermedio 2012-11). Il saldo totale è di quasi nove punti in meno rispetto all’ultimo anno prima della doppia recessione.
Anche nel 2013 si è assistito a una debacle della domanda interna: in volume i consumi finali scendono del 2,2% e tra essi la spesa per consumi delle famiglie realizza un – 2,6%, dopo il -4% del 2012. Ma il dato preoccupante è il -4,7% degli investimenti fissi lordi, una componente essenziale per far ripartire la crescita e che invece non ha mai dato segni di ripresa dopo la caduta del 2008-09. E nel 2013 l’export, unica componente positiva dell’anno precedente, è rimasto fermo.
Se invece guardiamo al Pil dal lato della produzione osserviamo che l’unico segno positivo viene dall’agricoltura (+0,3%), mentre l’industria in senso stretto fa un -3,2%, le costruzioni -5,9% e persino i servizi -0,9%. L’Istat ci fa notare che il Pil reale è tornato ai livelli dell’anno 2000, anzi lievemente al di sotto, perdendo ben tredici anni (come si nota nel secondo grafico a fondo pagina).
Se il Pil reale venisse considerato in termini pro capite, invece la caduta sarebbe ben maggiore, riportandoci al livello precedente l’introduzione dell’euro. Ma questo è meglio non evidenziarlo altrimenti poi ci dicono che è tutta colpa dell’euro, mentre solo di concomitanza si tratta e non di causalità. I guai dell’Italia sono per almeno il 90% di produzione nazionale.
Se osserviamo un periodo di tempo più lungo possiamo vedere come dall’inizio della seconda fase della crisi i consumi reali delle famiglie si siano ridotti di oltre sei punti percentuali: tra essi i beni di oltre l’11%, la spesa per trasporti del 15%, quella per vestiario e calzature del 14%, per mobili ed elettrodomestici del 10%, per alimentari del 7%. L’unica voce a non diminuire, ma anzi a crescere, era stata nel biennio 2011-12 la spesa sanitaria. È invece scesa nel 2013, registrando un -5,7%. Siamo proprio sicuri che la crisi sia finita?