Il debito pubblico italiano si è attestato a fine 2013 a 2.069 miliardi di euro, corrispondenti al 132,6% del Prodotto interno lordo, quasi cinque punti in più dell’anno precedente e il valore massimo da quando l’Istat elabora l’attuale serie storica. Se prescindiamo dalla piena confrontabilità dei dati nel tempo possiamo osservare che nei 154 anni di storia d’Italia solo in un’occasione si è avuto un valore simile all’interno di una tendenza alla crescita: il 130% fu superato nel 1919, l’anno successivo alla fine della Prima guerra mondiale.
Poiché lo scorso anno il Pil è stato pari a 1.560 miliardi, il debito pubblico dell’Italia avrebbe dovuto attestarsi a 936 miliardi, corrispondenti al 60% di 1.560. Il valore del debito superiore a 936 miliardi è pertanto eccesso di debito rispetto al trattato di Maastricht. A cosa è dovuto? A causa di quali fenomeni si è formato? L’eccesso nello stock del debito non può che essere imputato a un eccesso di spesa pubblica nel tempo al netto della tassazione e delle altre entrate raccolte dal settore pubblico. E l’eccesso di spesa pubblica può essere pensato come eccesso di spesa primaria che, essendo stata finanziata con debito, ha visto aggiungersi nel tempo oneri crescenti per interessi.
A sua volta l’eccesso di spesa primaria può derivare dalla spesa pubblica relativa alle diverse macrofunzioni del settore pubblico: (i) lo Stato “minimo” che legifera, produce atti amministrativi, organizza giustizia, polizia e difesa; (ii) lo Stato che finanzia infrastrutture; (iii) il welfare state; (iv) lo Stato imprenditore. In tutti questi settori può esservi stato eccesso di spesa e sarebbe interessante svolgere stime per ognuno. Se è tuttavia necessario scegliere uno di essi per avviare l’analisi non vi è dubbio che debba trattarsi dell’ultima. La ragione è molto semplice: mentre le prime tre sono aree di non mercato e riguardano funzioni pubbliche diversamente organizzabili ma comunque non evitabili, lo Stato imprenditore, che produce beni e servizi per il mercato ma a condizioni spesso non di mercato, non rappresenta per contro una funzione essenziale e irrinunciabile del settore pubblico.
Lo Stato imprenditore può tranquillamente non esserci e in effetti in altre tradizioni, come quella nordamericana, semplicemente non c’è (o non c’è più, come nel caso britannico). Le finalità collettive connesse a molti mercati possono infatti essere tranquillamente perseguite attraverso la regolazione economica (nel caso dei monopoli naturali e dei mercati a concorrenza problematica), i sussidi diretti a beneficio dei cittadini non abbienti (per favorire la fruizione di servizi essenziali) e l’assegnazione sussidiata di obblighi di servizio tramite concorrenza per il mercato nei casi in cui l’offerta di servizi essenziali potrebbe non manifestarsi in aree deboli o verso cittadini deboli. Se lo Stato sceglie invece di produrre direttamente, utilizzando imprese pubbliche, anziché affidarsi al mercato ha un evidente dovere di efficienza e in caso di insuccesso lo spreco prodotto durante l’esercizio di una funzione pubblica non essenziale appare più gravemente censurabile di quello realizzato nell’esercizio di compiti pubblici non rinunciabili.
Data questa riflessione abbiamo deciso di avviare presso il nostro Dipartimento all’Università Bicocca di Milano un programma di ricerca in più tappe finalizzato a stimare quale parte dell’attuale debito pubblico eccedente il limite di Maastricht è imputabile all’eccesso di spesa storica dello Stato imprenditore. Nella tradizione italiana il settore pubblico ha svolto attività imprenditoriali in due aree ben distinte: (i) nell’industria manifatturiera (attraverso enti quali l’Iri e l’Efim); (ii) nelle public utilities (nazionali e locali). La prima di esse è stata fortunatamente dismessa attraverso i processi di privatizzazione, ma i suoi oneri sulla finanza pubblica e sull’attuale stock del debito andrebbero comunque ricostruiti, dato che, ipotizzando che gli esborsi nel tempo siano stati più consistenti rispetto ai proventi conseguiti con le privatizzazioni, noi ora stiamo ancora sostenendo oneri per interessi sul debito pubblico a suo tempo contratto per finanziarli. Per quanto riguarda invece le utilities, quelle maggiormente problematiche e onerose per la finanza pubblica si sono storicamente concentrate nelle diverse modalità e servizi di trasporto: le ferrovie, il trasporto pubblico locale, il trasporto aereo, quello marittimo dei passeggeri, i recapiti postali.
La prima tappa di questo progetto di ricerca ha avuto per oggetto il sostegno finanziario pubblico al trasporto ferroviario in Italia nel periodo 1992-2012, successivo alla trasformazione dell’azienda Ferrovie dello Stato in società per azioni. Lo studio, di cui abbiamo a suo tempo riferito ai lettori deIl Sussidiario, si era posto l’obiettivo di ricostruire i sussidi pubblici complessivi erogati nell’ultimo ventennio all’azienda FS in raffronto ai sussidi erogati nello stesso periodo in quattro altri paesi europei con rilevanti reti ferroviarie: Gran Bretagna, Germania, Francia e Svezia. La finalità principale era di valutare la congruità dei trasferimenti concessi nel caso italiano in rapporto a casi europei confrontabili in un’ottica di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica e di miglioramento dell’efficienza complessiva del sistema.
I risultati conseguiti dalla ricerca hanno tuttavia manifestato rilevanti, e inattese al momento del suo avvio, implicazioni ai fini della spiegazione dell’alto debito pubblico italiano. La spesa pubblica ferroviaria dell’Italia nei 21 anni trascorsi dalla trasformazione di FS in società per azioni (1992-2012) è stata infatti enorme: a prezzi correnti, sommando i valori annuali non rivalutati, ammonta a 207,7 miliardi di euro, di cui 84,8 di parte corrente e 122,8 in conto capitale; a prezzi 2013 il valore della spesa complessiva cresce invece a 266,5 miliardi. Si tratta di una cifra consistente non solo in valore assoluto ma anche in rapporto all’attuale debito pubblico nazionale.
Quale parte di questa spesa era giustificata da finalità di investimento infrastrutturale e di sostegno ai servizi di trasporto ed era dunque corretto finanziarla attraverso la tassazione generale? Lo studio ha dato una risposta basata sulle altre esperienze internazionali. Nell’arco temporale considerato la spesa ferroviaria nel Paese europeo più costoso tra quelli esaminati, la Francia, è stata di 153,6 miliardi, ma il settore ferroviario francese è il doppio di quello italiano per dimensioni dell’infrastruttura e più che doppio per i passeggeri trasportati. Sul versante opposto la spesa ferroviaria britannica è stata invece di soli 69,3 miliardi di euro, un terzo di quella italiana, nonostante la rete britannica sia della stessa lunghezza di quella italiana e il traffico passeggeri sia stato sostanzialmente identico nel periodo considerato.
Applicando gli standard dei paesi benchmark a tutto il periodo 1992-2012, il sussidio totale italiano avrebbe dovuto essere di 83,2 miliardi con standard francese, il 40% del dato italiano effettivo, di 63,6 miliardi con standard britannico (il 31% del dato effettivo) e di 53,6 miliardi con standard svedese (il 26% del dato effettivo). Il valore medio del sussidio teorico, calcolato con gli standard di questi tre paesi, ammonta a 66,8 miliardi, pari al 32% del dato italiano effettivo di 207,7 miliardi. Due terzi della spesa pubblica totale italiana per le ferrovie, corrispondenti a 140 miliardi, avrebbero potuto in conseguenza essere risparmiati seguendo scelte di finanziamento simili agli altri paesi. Se si ipotizza che la spesa pubblica necessaria per le ferrovie in base agli standard degli altri paesi sia stata finanziata con la tassazione e che l’eccesso di spesa sia stato finanziato con debito, il contributo di questa parte alla formazione del debito risulta pari a 259 miliardi, corrispondente al 12,5% del debito pubblico italiano lordo di fine 2013 e al 25,5% dell’eccesso di debito rispetto al 60% autorizzato dal trattato di Maastricht.
Nel proseguimento della ricerca sulle origini del debito, il nuovo studio ha esaminato oltre un secolo di bilanci dell’azienda postale italiana, dalla “Belle epoque” all’epoca Sarmi, con la finalità di individuare nei diversi momenti storici gli oneri a carico della finanza pubblica, derivanti da passivi di bilancio ripianati e da altri trasferimenti all’azienda, e di misurarne l’impatto sull’attuale stock di debito pubblico. Nel quasi mezzo secolo compreso tra l’inizio degli anni ‘10 del secolo scorso e la fine degli anni ‘50 l’azienda postale ha registrato nella stragrande maggioranza degli esercizi attivi di bilancio, nonostante non fossero previsti trasferimenti pubblici a compensazione degli invii postali in franchigia dei militari e della Pa. In questo periodo i soli esercizi in disavanzo si ritrovano negli anni immediatamente successivi alle due guerre, tuttavia non risultano consistenti e sono ampiamente compensati dagli esercizi in attivo.
Nella prima parte di questo periodo, il trentennio che termina con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’amministrazione postale italiana ha chiuso i bilanci in passivo per circa un quinto degli esercizi, nei quali ha registrato perdite complessive per circa 750 milioni di lire, e in attivo per circa quattro quinti degli esercizi nei quali ha realizzato utili per complessivi 2,3 miliardi di lire (come si può vedere nel Grafico 1). Se convertiamo i risultati annui di bilancio del trentennio 1911-1940 in euro a prezzi 2013 e li sommiamo algebricamente, otteniamo un valore complessivo pari esattamente a 2 miliardi di euro. Non si può quindi sostenere che il modello cavouriano, applicato ai servizi postali, dell’azienda autonoma strettamente incardinata nel ministero di settore fosse incompatibile con un’adeguata gestione industriale e con stabili attivi di bilancio.
Grafico 1 – Saldo di bilancio dell’Amministrazione delle Poste e Telegrafi (1911-1939)
(Milioni di lire)
Fonte: elaborazioni su dati Amministrazione P.T.
Negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, il maggior livello del personale, l’equiparazione del personale non di ruolo e la concessione di aumenti salariali e di svariati compensi accessori non impedirono tuttavia di riportare presto in attivo la gestione aziendale e di mantenerla tale sin quasi al termine del decennio ‘50. Nel 1959 si dovette tuttavia far ricorso per la prima volta ad anticipazioni straordinarie del Tesoro al fine di poter finanziare un eccesso di spese rispetto alle entrate proprie. È con l’esercizio 1959-60 che si data concordemente l’avvio del crescente dissesto della gestione postale.
Il fattore di maggior rilievo ai fini del crescente squilibrio economico è da ricercarsi nelle dinamiche del personale: già non si comprende perché fosse più elevato del 20% nel 1950 rispetto all’inizio del decennio precedente a fronte di un livello di traffico di circa il 30% inferiore; inoltre, mentre per tutta la seconda metà degli anni ‘50 era rimasto stabile poco sopra le 100 mila unità, dall’inizio del decennio ‘60 iniziò una crescita regolare che lo avrebbe portato a toccare le 150 mila unità alla fine di quel decennio, le 200 mila unità all’inizio degli anni ‘80 e la cifra record di quasi 240 mila unità alla metà di quello stesso decennio, valore su cui si stabilizzerà sino all’avvio dei progetti di riforma dell’inizio degli anni ’90.
Con l’attivazione in Italia delle regioni a statuto ordinario, le Poste pensarono bene all’inizio degli anni ‘70 di introdurre un ulteriore livello direzionale, aggiungendo alle 95 direzioni provinciali 19 direzioni compartimentali che rispecchiavano le regioni. Presto queste 19 direzioni furono dotate di personale amministrativo e dirigenziale dello stesso ordine di grandezza complessivo delle 95 direzioni provinciali, giungendo le due tipologie a occupare complessivamente a inizio 1993 ben 35 mila persone che divenivano oltre 49 mila includendo tutti i restanti livelli direzionali. Questi 49 mila dipendenti dirigevano e vigilavano altre 177 mila unità di personale sparse nei 14 mila uffici postali e nelle altre unità produttive.
Con le scelte relative al personale le premesse per un dissesto epocale erano state tutte già poste non più tardi dell’inizio degli anni ‘60. Da notare che il traffico postale, dopo una crescita costante dal dopoguerra che lo aveva portato al livello di 6,3 miliardi di pezzi nel 1969, aveva di fatto smesso di aumentare restando stazionario per almeno il quindicennio successivo. Pertanto il passaggio dai 141 mila dipendenti del 1968 ai poco meno di 240 mila di soli quindici anni dopo non trovava alcuna giustificazione nelle dinamiche della produzione (Grafico 2).
Grafico 2 – Personale e traffico postale nell’APT (1941-1985)
(Indici 1941=100)
Fonte: elaborazioni su dati Amministrazione P.T. e Istat.
Qualche dato illuminante circa l’attaccamento di così tanti dipendenti al loro lavoro: 20 giorni medi di assenza pro capite all’anno nella prima metà degli anni ‘60, 29 nel 1966, 33 nel 1967, 42 nel 1968 e 1969, negli anni seguenti non fu neppure rilevata, 31 nel 1973. E un solo dato sulla qualità del servizio: tradizionalmente negli altri paesi europei buona parte delle corrispondenze è sempre stata consegnata il giorno successivo alla spedizione, in Italia alla fine degli anni ‘80 il tempo medio di recapito sfiorava i nove giorni. Nel 1990, su 237 mila dipendenti totali, gli addetti al recapito erano solo 47 mila. Sulla ripartizione delle restanti mansioni aziendali tra i restanti 190 mila dipendenti non era dato sapere. L’eccesso di costi rispetto ai ricavi nel periodo 1976-1993 è illustrato nel Grafico 3.
Grafico 3 – Costi e proventi dell’Amministrazione delle Poste (1976-1993)
(Milioni di euro 2013)
Fonte: elaborazioni su dati Amministrazione P.T. ed Ente Poste Italiane.
Nel 1993, all’avvio della riforma postale finalizzata a mettere fine a questa condizione insostenibile, il debito aziendale accumulato col Tesoro e la Cassa depositi e prestiti per coprire finanziariamente i disavanzi superava i 50 mila miliardi di lire dell’epoca. Il nuovo Ente, che partiva con attività patrimoniali conferite dallo Stato stimate in poco più di 6 mila miliardi, non era evidentemente in grado di rimborsare questo debito, né di farsene carico nello stato patrimoniale, dato che in tale ipotesi si sarebbe evidenziato un patrimonio netto negativo per 44 mila miliardi. Era pertanto necessario ripianare e trasferire il debito postale a debito pubblico. Fu così che, per effetto dei commi 3 e 4 dell’art. 7 della legge n. 71/1994, istitutiva dell’Ente Pubblico Economico, si provvide alla cancellazione di crediti del Tesoro per complessivi 27.627 miliardi di lire e alla trasformazione in mutui a carico del Tesoro di anticipazioni concesse dalla Cassa depositi e prestiti per complessivi 22.604 miliardi di lire. L’ammontare complessivo dell’operazione di ripianamento fu di 50.231 miliardi, corrispondenti a 26 miliardi di euro dell’epoca e a 44 miliardi di euro a prezzi 2013.
Questo dato riflette il costo complessivo a carico della collettività misurabile a fine 1993 del sistema postale pubblico, generato all’incirca nel trentennio precedente la legge di riforma del 1994.
Nel quadriennio 1994-98 di operatività delle Poste come ente pubblico si assisteva a un miglioramento del disavanzo di bilancio per effetto dal lato dei costi del contenimento della spesa per il personale, soprattutto per effetto della fuoriuscita volontaria, favorita dall’esclusione del comparto dai blocchi alle pensioni di anzianità attuati in quel periodo. Restavano invece stagnanti i livelli complessivi di produzione dell’azienda e l’impiego del personale non si accompagnava a modificazioni adeguate nelle tecnologie impiegate (informatizzazione e meccanizzazione) e innovazioni nell’organizzazione del lavoro (quali riequilibrio tra personale amministrativo e operativo e tra back office e front office). Dal lato dei ricavi il miglioramento era invece interamente dovuto all’aumento dei compensi per i servizi svolti in favore della Pa e alla crescita delle tariffe postali. Nel periodo in oggetto i trasferimenti pubblici totali sono stati pari a 3 mila 700 miliardi di lire, corrispondenti a 2,8 miliardi di euro 2013, i quali si aggiungono a 3 mila 200 miliardi di disavanzo complessivo conseguito, per un onere totale di 6 mila 900 miliardi, corrispondente a 5,2 miliardi di euro 2013.
Nel 1998 le Poste diventano società per azioni, ma il loro precario stato patrimoniale rende necessari conferimenti pubblici straordinari per 4,2 miliardi di euro dell’epoca, di cui 1,5 attraverso mezzi freschi e 2,7 sotto forma di cancellazione di debiti verso il Tesoro. Negli anni successivi non vi saranno fortunatamente altri interventi di questo tipo, essendo in grado l’azienda di sostenere gli iniziali disavanzi col suo patrimonio e di reintegrarlo e di incrementarlo successivamente attraverso gli attivi di bilancio che sarà stabilmente in grado di realizzare dopo l’anno 2000. Dopo il 1998 restano tuttavia alcune tipologie di contribuzione pubblica al bilancio di Poste. Escludendo correttamente dall’analisi i compensi erogati come controprestazione per servizi resi da Poste alla Pa., si tratta delle compensazioni per oneri di servizio pubblico relativi al servizio universale del recapito, per tariffe agevolate all’editoria, abrogate nel 2010, e per tariffe ridotte relative agli invii elettorali. Nei 16 anni trascorsi dalla trasformazione in S.p.A., l’onere pubblico complessivo per i servizi postali è stato di 13,9 miliardi di euro a prezzi correnti, di cui 4,2 per apporti di capitale e 9,7 per compensazioni, corrispondenti a 17,1 miliardi a prezzi 2013. Detraendo da tali valori i dividendi percepiti dal Tesoro tra il 2005 e il 2012, l’onere pubblico complessivo per i servizi postali scende a 12,3 miliardi di euro a prezzi correnti e a 15,4 miliardi a prezzi costanti 2013.
È a questo punto possibile riepilogare l’onere totale per la finanza pubblica prodotto dai servizi postali: dalla fine degli anni ‘50 a oggi i servizi postali hanno generato oneri complessivi per la finanza pubblica italiana per oltre 40 miliardi di euro a prezzi correnti e per quasi 122 miliardi di euro a prezzi costanti 2013. Di essi 103 miliardi sono imputabili al periodo precedente la riforma postale realizzata con la l. 71/1994 e 18 miliardi al periodo successivo. Il Grafico 4 mostra l’evoluzione nel tempo dell’onere pubblico netto per i servizi postali, espresso sia a prezzi correnti che a prezzi costanti 2013. Il Grafico 5 riporta invece gli oneri pubblici netti annuali, evidenziando la loro drastica riduzione dopo la riforma del 1994, che non si rivelò tuttavia sostenibile e alla quale dovette far seguito un più ampio esborso pubblico che negli anni 2000 è tuttavia andato più lentamente attenuandosi.
Grafico 4 – Oneri netti cumulati a carico della finanza pubblica per i servizi postali
(Milioni di euro)
Fonte: elaborazioni del presente studio su dati Corte dei Conti.
Grafico 5 – Oneri netti annuali a carico della finanza pubblica per i servizi postali
(Milioni di euro)
Fonte: elaborazioni del presente studio su dati Corte dei Conti.
Il calcolo sin qui svolto non ha tuttavia considerato gli effetti prodotti dagli oneri per interessi generati dal finanziamento con debito della spesa pubblica destinata alle Poste. In maniera corretta il debito pubblico che si può considerare originato dalla spesa postale è formato: dai disavanzi postali ripianati dal Tesoro sino al 1993 e dagli interessi sul debito pubblico contratto per finanziarli, dall’accollo in capo al Tesoro con la l.71/1994 dei mutui in essere con Cdp e dai successivi interessi, dai trasferimenti pubblici erogati alle Poste dal 1994 in avanti, al netto dei dividendi percepiti, e dagli interessi sul debito contratto per finanziarli.
Il calcolo del debito pubblico “postale” così definito è riportato nel Grafico 6 il quale distingue tra oneri pubblici cumulati per trasferimenti alle Poste e oneri per interessi cumulati.
Grafico 6 – Contributo degli oneri postali allo stock di debito pubblico nell’ipotesi di loro finanziamento con debito
(Milioni di euro)
Fonte: elaborazioni su dati del presente studio ed Istat.
Il debito pubblico “postale” che si è formato nell’ultimo cinquantennio ammonta a 190,7 miliardi di euro, di cui 40,2 per trasferimenti alle Poste e 150,5 per interessi cumulati sul debito pubblico contratto per finanziarli. Si tratta del 9,2% del debito pubblico italiano lordo, pari a fine 2013 a 2.067 miliardi, e del 9,8% del debito italiano al netto delle disponibilità e prestiti del Tesoro. Infine, esso rappresenta il 18,8% dei 1.016 miliardi di debito netto eccedente il parametro di Maastricht del 60% del Pil.
Se sommiamo ai quasi 191 miliardi di debito pubblico “postale” i 259 miliardi di debito pubblico “ferroviario” stimati nel precedente studio perveniamo a un totale di 450 miliardi di debito pubblico italiano a fine 2013 imputabili all’eccesso di spesa pubblica per Poste e Ferrovie, corrispondenti al 44% dei 1016 miliardi di debito pubblico italiano eccedenti a fine 2013 il limite del 60% del Pil indicato dal trattato di Maastricht. Se l’Italia non avesse mai ecceduto nella spesa pubblica nei soli settori dei servizi postali e del trasporto ferroviario ora lo stock del debito pubblico netto dell’Italia sarebbe, a parità di comportamenti in tutti gli altri settori di spesa pubblica, pari 1.500 miliardi e il rapporto debito/Pil al 96%.
Con un po’ di buona volontà e di calcoli riusciamo correttamente a capire quando e perché si è formato l’alto debito pubblico italiano. E la risposta è totalmente italiana. L’Europa e l’euro proprio non c’entrano.