Dopo il fumo degli annunci ecco l’arrosto, ma rispetto ai provvedimenti necessari per l’economia italiana e il suo settore pubblico siamo solo all’antipasto. Così si può valutare in grande sintesi il pacchetto di provvedimenti varato venerdì dal Consiglio dei Ministri. Il Governo Renzi mantiene le promesse: la riduzione delle tasse c’è, anche se per ora riguarda solo i lavoratori dipendenti; la copertura pure e, anche se variegata e in parte transitoria, è principalmente basata su riduzioni di spese. Non si può quindi che confermare il giudizio sostanzialmente positivo già dato al momento della presentazione del Def, il documento programmatico di economia e finanza pubblica. Nella presente occasione è tuttavia necessario fare qualche passo in avanti e iniziare a dire cosa sarà opportuno fare nelle prossime occasioni. Il bicchiere di oggi è pieno per due terzi, ma affinché lo siano anche quelli di domani serviranno nuove e assai impegnative riforme. Tuttavia iniziamo con l’occuparci del bicchiere di oggi e spieghiamo perché ci appare prevalentemente pieno:

1) In primo luogo perché inizia sul serio a ridurre il prelievo fiscale e lo fa per una platea piuttosto ampia di italiani: circa un decina di milioni di lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi (da 8 a 26 mila euro annui) ai quali vengono ridati, modificando le detrazioni da lavoro dipendente, mediamente circa 1.000 euro su base annua, equivalenti a 80 euro mensili. La riduzione Irpef è «una misura strutturale», ha dichiarato Renzi al termine del Consiglio dei ministri, «chi riceve 1.180 euro, da maggio ne prende 1.260 attraverso la corresponsione di 80 euro in più in busta paga. Abbiamo mantenuto l’impegno annunciato: 10 miliardi di euro a 10 milioni di italiani». Il costo del provvedimento è di 10 miliardi a regime e due terzi di tale cifra nel 2014, dato che decorre da maggio e non tocca in conseguenza i primi quattro mesi dell’anno. Anche l’Irap viene ridotta, del 10%, scendendo al 3,5%.

2) In secondo luogo perché la copertura è rappresentata prevalentemente da riduzioni di spesa e non da maggiori entrate. Le voci di maggiore entrata sono date nel primo anno da: 600 milioni di maggior gettito Iva (per effetto accelerazione pagamenti della Pa), 1,8 miliardi di entrate fiscali dalle banche sulla rivalutazione delle quote della Banca d’Italia e 300 milioni da maggior gettito per lotta all’evasione fiscale. Il totale fa 2,7 miliardi, mentre i restanti 4,2 necessari per arrivare ai 6,9 totali di copertura derivano da minori spese: 1 miliardo per minori agevolazioni alle imprese, 100 milioni da misure di innovazione, 2,1 miliardi da minori spese per acquisto di beni e servizi, 100 milioni dalla riorganizzazione delle società municipalizzate, 900 milioni da misure riconducibili alla voce “sobrietà”.

Queste ragioni ci permettono di dire che il bicchiere del provvedimento, che non esaurisce il disegno programmatico del Def, sia prevalentemente pieno. Cosa manca, invece, nella parte residuale, quella vuota? In primo luogo, il fatto che il beneficio fiscale non vada a vantaggio della generalità degli italiani in condizioni economiche meno favorevoli, ma solo a quella parte che si ritrova nella condizione di lavoratore dipendente e per di più nella condizione fiscale di “capiente”, cioè di soggetto che si ritrova con una posizione debitoria Irpef che può in conseguenza venire attenuata dal provvedimento.

Molti soggetti, altrettanto o ancora più bisognosi, non sono invece interessati: disoccupati, lavoratori dipendenti incapienti (che rientrano già nell’area di non tassazione), pensionati, autonomi a basso reddito tra cui partite Iva non volontarie (lavoratori che sarebbero stati dipendenti ma sono stati indotti ad aprire una posizione autonoma). Per gli incapienti è stato annunciato un successivo provvedimento di cui restiamo in attenta attesa. In diverse occasioni abbiamo sostenuto che, desiderando aiutare i consumi della generalità delle famiglie meno abbienti, sarebbe stato molto meglio ridurre l’aliquota Iva sui beni essenziali prima delle detrazioni per i lavoratori dipendenti, dato che anche chi non ha lavora o è in pensione ha un’elevata necessità di consumi essenziali.

Per quanto riguarda invece i tagli, avrei preferito una maggiore correlazione con le proposte del commissario alla spending review Cottarelli. Non che non vi siano, ma al momento il dettaglio dei risparmi specifici è limitato e per un giudizio più articolato bisognerà attendere il testo del provvedimento. Molte cose tra quelle annunciate sono condivisibili e apprezzabili, tuttavia singolarmente prese non sono in grado di garantire risparmi consistenti. Qualche esempio: il tetto agli stipendi degli alti burocrati pubblici, senz’altro condivisibile; il taglio alle auto blu ministeriali e il tetto posto alle medesime; la riduzione delle imprese municipalizzate; la riduzione dei centri di acquisto della Pa. Alcuni provvedimenti vanno apprezzabilmente anche nella direzione di una maggiore trasparenza e non solo del risparmio di spesa, quale ad esempio la messa on line di tutte le spese della Pa, centrale e locale. La Rai dovrà riordinare e ridurre le sue sedi regionali. Infine, sono abolite le tariffe postali agevolate per gli invii dei candidati alle competizioni elettorali, i cosiddetti “santini”. Si tratta di pochi milioni di euro all’anno, ma il provvedimento ha un’evidente natura simbolica.

Al riguardo mi fa piacere ricordare che già a metà degli anni ‘90 essi erano stati aboliti su proposta del governo e che il suggeritore della cancellazione era stato l’autore di questo articolo, ai tempi consulente economico della Presidenza del Consiglio. È molto interessante sapere come andò allora a finire: i parlamentari approvarono la cancellazione perché non si accorsero dell’effettiva portata della norma, dispersa all’interno di una legge finanziaria. Quando successivamente, in occasione della prima competizione elettorale in calendario, si accorsero che le agevolazioni postali non c’erano più le ripristinarono immediatamente con una legge ad hoc. Ho raccontato nel 2007 dei ripetuti tentativi di cancellare le agevolazioni postali, incompatibili col mercato liberalizzato, in un paper dell’Istituto Bruno Leoni dal titolo “L’eterno ritorno dei problemi postali” .

In definitiva, molte cose buone nel provvedimento di venerdì, quante bastano per iniziare a ridurre la pressione fiscale, ma certo non per iniziare a riformare il Paese e il suo eccessivo e inefficiente settore pubblico. La Pa. spende all’anno circa 800 miliardi di euro, più della metà del Pil che da troppi anni si rifiuta di superare la soglia dei 1.600 miliardi. Il 90% di essa, con esclusione della spesa per interessi, è perfettamente controllabile da Governo e Parlamento. Inoltre, più dell’80% è spesa corrente. In rapporto al Pil siamo a livelli prossimi a quelli scandinavi, tuttavia con un’efficienza e un’equità della spesa neanche lontanamente paragonabili.

La nostra Pa ci costa come un’auto di lusso nuova e performa come un’utilitaria vecchia e piena di acciacchi. Sappiamo benissimo che per stare da protagonisti in Europa e competere sui mercati globali dobbiamo farla costare molto di meno e, soprattutto, farla funzionare molto meglio. Ma rispetto a questi obiettivi, per ora, siamo ancora ai box di partenza.