Quale giudizio si può dare della Legge di stabilità per il 2016, ora che la conosciamo in tutti i suoi numeri e dettagli? Due settimane fa, quando era nota solo per gli annunci in scala twitter del Primo ministro, ci sembrò che le singole misure meritassero un po’ quasi tutti i voti possibili, ad esempio dal tre all’otto se utilizziamo la scala decimale del nostro sistema scolastico: alcuni interventi utili e significativi (tra il sette e l’otto), altri utili ma non prioritari (tra il sei e il sette), altri nella giusta direzione ma non il mezzo migliore per il fine dichiarato (tra il cinque e il sei), altri più discutibili nelle finalità perseguite e/o nei mezzi messi in campo o in entrambi (voto insufficiente). Risultava invece molto difficile dare un giudizio d’insieme in quanto tutte le manovre di questo tipo sono per loro natura un insieme eterogeneo di provvedimenti che toccano con segno differente una molteplicità di aree di intervento pubblico. Difficile intravvedere un disegno generale dall’esame di tanti tasselli che sembrano appartenere, e di fatto appartengono, a mosaici differenti; ancora più difficile cercare di estrapolare linee di tendenza in grado di delineare percorsi di riforma pluriennali. Il fatto che esse non si vedano non prova di per sé che non sussistano, pur essendo questa interpretazione a elevata probabilità.
Le maggiori informazioni di cui ora si dispone permettono tuttavia una riflessione più approfondita e documentata. In primo luogo, occorre rispondere alla domanda su che tipo di manovra si tratta. Intanto è una manovra che peggiora i saldi di bilancio rispetto all’ipotesi base di non fare nulla e conservare lo status quo, cioè lasciare invariata la legislazione fiscale e quella della spesa pubblica. Poiché peggiora i saldi qualcuno la ha definita “espansiva”, e qualcun altro, sul versante opposto, non rigorista se non addirittura lassista. Non mi sento di condividere questo secondo giudizio: le manovre “rigoriste” del biennio 2011-12 miglioravano drasticamente i saldi di bilancio per gli anni successivi, tuttavia lo facevano solo sulla carta. Nella realtà esse hanno prodotto principalmente una deleteria recessione aggiuntiva e migliorato i saldi pubblici molto meno di quanto sarebbe avvenuto se non fossero state fatte del tutto. Dunque il fatto che non sia rigorista come quelle di allora è un merito; peccato tuttavia che non lo sia neppure in una differente maniera. Il riferimento è evidentemente alla “spending review”, alla razionalizzazione e controllo della spesa pubblica. Che fine ha fatto? Chi l’ha vista? Neanche Sherlock Holmes ne troverebbe traccia nel provvedimento in oggetto.
La manovra includerebbe in realtà ben 8,4 miliardi relativi a voci di “riduzioni della spesa”, tuttavia di esse le due maggiori, rispettivamente per 1,9 e 1,8 miliardi, riguardano in verità le Regioni, non lo Stato. Si tratta in conseguenza di minori spese per il settore statale nel senso che lo Stato assegna meno soldi alle Regioni rispetto a quelli previsti per il 2016 dalle leggi vigenti. Starà poi alle Regioni scegliere come compensarli: cercare nuovi introiti propri, strada praticata in passato ma ora quasi del tutto preclusa, oppure migliorare l’efficienza della spesa o tagliare le prestazioni ai cittadini. Considerando l’ottica di breve periodo, l’esercizio annuale, e il fatto che i servizi prestati dalle Regioni ai cittadini sono essenzialmente sanitari, lasciamo al lettore immaginare quale delle due strade sarà più facilmente praticata.
In realtà, accanto alla seconda delle due voci citate, riferita direttamente alla spesa sanitaria, è precisato a scanso di equivoci nella tabella che accompagna il provvedimento: “rideterminazione dei livelli di assistenza”. Ora “rideterminazione” in un contesto di riduzione del budget ha l’esatto significato di “riduzione dei livelli di assistenza” che è l’antitesi della spending review: garantire gli stessi livelli (o, perché no, accrescerli) riducendo invece il loro costo unitario di produzione. Neppure nella terza voce più rilevante tra le “minori spese” vi è alcuna traccia di spending review: essa riguarda infatti la spesa dei Ministeri, ma per 1,6 miliardi è riduzione di spesa per investimenti…, evidentemente considerata poco utile ai fini della crescita economica.
Posto che il difetto maggiore della manovra è l’assenza di qualsiasi traccia di spending review, il pregio maggiore, come già scritto due settimane fa, è il disinnesco delle clausole di salvaguardia, vere e proprie mine vaganti lasciate in eredità dalle precedenti manovre di finanza pubblica. Tuttavia esso avviene nella loro totalità solo per il 2016, mentre la spada di Damocle slitta in avanti di un anno. L’aumento automatico di aliquote è dunque solo rinviato, non cancellato, e non si può pensare che il relativo effetto sulle decisioni di spesa dei cittadini sia lo stesso. Se mi dicono che una tassa che dovevo pagare domani slitta in realtà a dopodomani che faccio? Spendo i soldi domani in consumi o li tengo da parte per pagare le maggiori tasse dopodomani? O magari per coprire la maggiore spesa sanitaria a mio carico conseguente alla “rideterminazione delle prestazioni” garantite dalla sanità pubblica? Inoltre, non posso dire che le tasse che non sono state aumentate sono state in realtà ridotte. Non è esattamente la stessa cosa. Se il mio datore di lavoro rinuncia ad abbassarmi li stipendio, non è che me lo ha aumentato e che pertanto io posso consumare di più…
Vi è tuttavia un altro rilievo, non piccolo, che si può indirizzare all’eliminazione delle clausole di salvaguardia, il cui costo è pari a 16,8 miliardi. Com’è stata finanziata? Non è casuale che le due voci più grandi nella tabella che accompagna la manovra siano da un lato proprio la citata eliminazione delle clausole, per 16,8 miliardi, e sul fronte opposto, quello del finanziamento, per 17,7 miliardi, con la ‘”flessibilità europea”, che, per chi non fosse in grado di capire, è esplicitata in parentesi come “deficit aggiuntivo”. È come dire: “Cara Europa, abbiamo in realtà scherzato: ti abbiamo promesso lo scorso anno che avremmo ridotto il nostro disavanzo pubblico di oltre un punto di Pil in più e per rendere solenne questa promessa abbiamo anche scritto nelle leggi che, qualora non fossimo riusciti a coprire tale riduzione con risparmi di spesa, avremmo incrementato una serie di aliquote fiscali. Tuttavia, a una più attenta riflessione, perché mai dovremmo ridurre la spesa pubblica o aumentare le aliquote se possiamo semplicemente non rispettare la nostra promessa?”. In sintesi: l’eliminazione delle clausole di salvaguardia è un’apparente cancellazione di incrementi di aliquote che maschera in realtà un’effettiva incapacità di ridurre la spesa. È il costo della non spending review.
Bisogna ricordare infine che alcune effettive riduzioni fiscali sono pur previste dalla manovra, ma esse non riguardano le imposte che sono maggiormente in grado di condizionare la domanda aggregata e dunque di stimolare la crescita. Come si fa a stimolare la domanda per consumi delle famiglie? Si lascia più reddito disponibile alle famiglie con minor reddito e più alta propensione marginale al consumo. Bisognerebbe dunque dare più sostegno alle famiglie più povere, ad esempio tramite un’imposta negativa sui redditi che, al di sotto di un certo livello, si trasformi in sovvenzione. In tale ipotesi si aiutano i più poveri. Se si agisce invece a regime fiscale invariato appare preferibile aumentare le detrazioni per i figli a carico e, in generale, l’area di non tassazione per i lavoratori. In tal modo si aiutano i lavoratori più poveri, ma si escludono i più poveri che non lavorano.
Infine, se si sopprime come previsto dalla manovra, la tassazione sulla prima casa non si aiutano i più poveri, che casa in proprietà non hanno; si aiutano poco coloro che, un po’ meno poveri, hanno una casa di dimensioni e rendita catastale ridotta, e si aiutano moltissimo i benestanti che hanno una prima casa di grandi dimensioni. O che magari ne hanno più d’una, potendo spedire la nonna a prendere residenza a Cortina e il nonno a Santa Margherita ligure. Ma non è detto che queste categorie, partendo da livelli di consumo elevati, abbiano anche una propensione al consumo simile alle famiglie a più basso reddito. È anzi probabile il contrario. Dunque per ragioni sia di equità che di efficacia, ai fini dello stimolo dei consumi la scelta effettuata è sicuramente da bocciare.
L’altra tassa che viene ridotta, anche se non si sa bene da quale anno, è l’Ires sui redditi societari. Qui giova ricordare una classica lezione di Scienza delle finanze, presente su qualsiasi manuale in qualsivoglia lingua: quella che spiega gli effetti di un’imposta sui profitti. Essa evidenzia in un grafico una curva che rappresenta i profitti totali al variare delle quantità offerte dall’impresa. Questa curva è dapprima crescente al crescere delle quantità prodotte e offerte, poi, dopo aver raggiunto un punto di massimo, decresce. Ovviamente l’impresa sceglie di produrre le quantità corrispondenti al livello di profitto massimo. Cosa succede se tassiamo questo profitto con un’imposta proporzionale? Che la curva di profitto totale dopo le tasse si contrae verso il basso della stessa percentuale, ma il suo punto di massimo resterà in corrispondenza della stessa quantità di prima. In sintesi, se riduciamo l’aliquota fiscale sui profitti societari, la quantità ottimale prodotta non cambia e non si ha alcuna convenienza ad accrescere l’offerta. Certo, si può dire che questo sia un modello teorico, valido solo ad alcune condizioni. Tuttavia nel dubbio si poteva intervenire sull’Irap o sull’aliquota previdenziale, riducendo oneri fiscali che anche imprese che non fanno profitti sono obbligate a sostenere.