RIFORMA PENSIONI 2015 – Un nuovo buco nei conti pubblici è stato aperto, sotto le insegne apparenti dell’equità, dalla sentenza della Corte Costituzionale del 30 aprile che ha dichiarato parzialmente incostituzionali le norme del decreto legge “Salva-Italia” del 6 dicembre 2011 con le quali era stata cancellata per il biennio 2012-13 l’indicizzazione all’inflazione dei trattamenti previdenziali superiori a tre volte il minimo, pari a poco meno di 1.450 euro mensili lordi. Si tratta di circa sei milioni di trattamenti previdenziali e l’onere a carico dell’Inps derivante dalla sentenza, dato che gli aumenti a suo tempo cancellati dovranno ora essere pagati, è stimato in poco meno di 5 miliardi totali, di cui circa 1,8 per l’anno 2012 e circa 3 per il 2013. Si tratta di un multiplo del famoso tesoretto che avrebbe dovuto essere destinato a provvedimenti per i meno abbienti e che, alla luce di questa sconcertante novità, ben difficilmente potrà essere confermato.



Tuttavia il conto finale per le casse pubbliche potrà risultare ben più ampio. Infatti, anche per l’anno 2014 sono stati adottati provvedimenti di attenuazione dell’indicizzazione delle pensioni all’inflazione, anche se meno drastici rispetto a quelli del governo Monti: lo scorso anno solo le pensioni superiori a sei volte il minimo, corrispondente a poco meno di 3 mila euro lordi mensili, hanno visto la cancellazione totale dell’adeguamento, mentre quelle comprese tra quattro e cinque volte il minimo hanno subito un decurtazione di un quarto dell’incremento percentuale previsto e quelle comprese tra tre e quattro volte solo del 10%. La sentenza della Corte non si applica a questo differente provvedimento, tuttavia sembra prevedibile un analogo esito di probabilissimi nuovi ricorsi.



Un secondo fattore critico riguarda il fatto che le pensioni “fermate” nel 2012 e 2013 avevano perso permanentemente due gradini di incremento, dato che la ripresa dell’indicizzazione è avvenuta avendo come base il loro livello di fine 2011. La sentenza della Corte ripristina evidentemente questi due gradini e pertanto l’onere da essa generato non è una tantum ma permanente, risultando più elevato nel primo anno per effetto degli arretrati che dovranno essere corrisposti.

Quali commenti debbono essere fatti? Sul piano del risanamento della finanza pubblica, dell’aggiustamento dei conti e della messa in sicurezza del debito pubblico è evidente che si tratta di un vulnus importante, sia per l’entità dell’onere generato per le casse pubbliche, sia perché le argomentazioni accolte potrebbero incentivare altre categorie di beneficiari della spesa pubblica a ricorrere e in questo caso le cifre coinvolte potrebbero essere ben maggiori. Infatti, se è incostituzionale il blocco dell’adeguamento all’inflazione dei trattamenti previdenziali medi e alti dei non più lavoratori, come è possibile che sia costituzionale il blocco totale degli stipendi dei dipendenti pubblici, che dura da ben più tempo e riguarda anche i percettori degli stipendi più bassi?



Come può risultare compatibile con la Costituzione il fatto che un pensionato che percepisce l’importo X sia pienamente tutelato nel suo potere d’acquisto mentre il dipendente pubblico che percepisce l’identico importo X, e che tuttavia sostiene, a differenza del pensionato, costi e oneri per lavorare e probabilmente ha anche carichi familiari da mantenere, non lo sia per nulla? Come la mettiamo con i concetti di equità orizzontale ed equità verticale che Aristotele già venticinque secoli fa aveva sinteticamente ed efficacemente spiegato nell’Etica Nicomachea? Possibile che la Costituzione italiana, per molti la più bella del mondo, riesca a ignorarli? Oppure non è la Costituzione a ignorarli ma la Corte non si è ancora occupata del caso perché i soggetti interessati non hanno ancora fatto ricorso? E quando lo faranno cosa succederà alla nostra problematica finanza pubblica?

Al fine di dare un giudizio più argomentato conviene tuttavia richiamare le motivazioni della Corte (il corsivo è mio):

“La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. (…) L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. La norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti.”

Vediamo in sintesi le principali argomentazioni addotte:

1) gli interventi attuati sulle pensioni dal provvedimento del governo Monti sono definiti “così fortemente incisivi”;

2) il diritto a una prestazione previdenziale adeguata, “costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”;

3) i trattamenti previdenziali sono definiti “modesti”;

4) “Risultano intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionalila proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita, e l’adeguatezza”.

Temo di non essere d’accordo su nessuna di queste argomentazioni e lo evidenzio per singolo punto:

1) Con i provvedimenti Monti il titolare di una pensione di 3 mila euro mensili non ha ottenuto l’aumento mensile di 90 euro del 2012 e di 36 euro del 2013; il titolare di una pensione di 2 mila euro non ha ottenuto l’aumento di 60 euro mensili nel 2012 e di 24 euro nel 2013. Si può davvero parlare di “interventi incisivi” alla luce della remunerazione e del reddito medio degli italiani, delle condizioni problematiche del mercato del lavoro e dell’alto numero di disoccupati e sottooccupati, della caduta pluriennale della produzione e del prodotto interno lordo? Forse sarebbero interventi incisivi se attuati negli Emirati arabi.

2) C’era davvero necessità di esplicitare in dettaglio le esigenze finanziarie perseguite attraverso il singolo e specifico provvedimento? Non bastavano le esigenze finanziare complessive dell’intero decreto legge, emanato d’urgenza per stoppare il rialzo dello spread sui titoli pubblici? E lo spread stesso non era forse già di per sé un’ottima sintesi delle “esigenze finanziarie” dello Stato italiano?

3) Il provvedimento Monti toccava solo trattamenti previdenziali di importo superiore almeno del 50% al trattamento previdenziale medio erogato dagli istituti previdenziali pubblici. Pertanto quelli davvero di modico importo non furono interessati.

4) È vero che il trattamento di quiescenza è retribuzione differita, tuttavia la retribuzione differita è retribuzione pagata dai datori di lavoro e accantonata sotto forma di contributi previdenziali, non retribuzione pagata dai contribuenti, come si verifica invece in tutti i casi nei quali i trattamenti erogati sono squilibrati in quanto eccedenti il valore attuariale dei contributi versati. La retribuzione differita è quella pagata dai datori di lavoro. Quella pagata dai contribuenti si chiama invece assistenza, ma i doveri di solidarietà ex art. 2 Cost., citato dalla Corte, valgono necessariamente dai più abbienti verso i più poveri e non, come nel caso delle pensioni alte non giustificate dai contributi, da chi sta peggio (lavoratori a basso reddito) verso chi sta meglio. I contributi previdenziali, inoltre, sono proporzionali alla remunerazione percepita la quale, per l’art. 36 Cost., deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e tale da assicurare un’esistenza libera e dignitosa. Se questo si è verificato durante la vita lavorativa, la pensiona corretta è proporzionale ai contributi versati i quali sono proporzionali alla remunerazione percepita che era a sua volta proporzionale al lavoro prestato. Una corretta interpretazione del trattamento previdenziale come remunerazione differita implica necessariamente l’utilizzo del criterio contributivo come metodo di calcolo. Solo se il trattamento in tal modo calcolato si rivela insufficiente ad assicurare un livello di vita dignitoso scattano i doveri di solidarietà e gli obiettivi di eguaglianza sostanziale ex art. 2 Cost. Ma si tratta evidentemente degli importi al di sotto della media, non di quelli al di sopra che furono toccati dai provvedimenti di Monti, ora dichiarati incostituzionali.

In sostanza non vi è nulla a mio avviso nella Costituzione italiana che impedisca di ricalcolare le pensioni secondo il criterio contributivo, anzi bisognerebbe farlo, perché solo in tal modo si determina la corretta retribuzione differita. Tutto ciò che eccede tale valore è semplicemente assistenza, ma la Costituzione prevede che essa sia dovuta ai più deboli e più bisognosi, non ai più forti e più furbi.