È finalmente pervenuta, dopo un’attesa di ventiquattr’ore, la sentenza della Corte Costituzionale sulla sospensione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego. Inizialmente introdotta con decorrenza dal 2010 dal governo Berlusconi, essa era stata reiterata da tutti i governi successivi attraverso i provvedimenti annuali di finanza pubblica e aveva comportato la stazionarietà delle remunerazioni lorde dei dipendenti pubblici e una loro conseguente riduzione in termini reali. Se consideriamo inoltre l’incremento di tassazione complessivamente realizzato dai governi degli ultimi anni, dobbiamo evidenziare che la stazionarietà nominale delle remunerazioni lorde si è realtà tradotta in una riduzione anche in termini nominali del reddito disponibile dei dipendenti pubblici, l’importo che resta dopo aver pagato tutte le imposte. La riduzione in termini reali è risultata in conseguenza ancora più consistente dato che il potere d’acquisto di stipendi lordi nominalmente fermi è stato eroso da maggiori imposte e dall’inflazione dei prezzi al consumo.



La Corte Costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità del blocco della contrattazione collettiva e degli stipendi dei dipendenti della Pubblica amministrazione, tuttavia con decorrenza dalla data della sentenza e dunque senza effetti retroattivi che avrebbero potuto comportare esborsi consistenti e difficilmente sostenibili per la nostra problematica finanza pubblica. Questo è il comunicato ufficiale emesso: “La Corte Costituzionale, in relazione alle questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze R.O. n. 76/2014 e R.O. n. 125/2014, ha dichiarato, con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza, l’illegittimità costituzionale sopravvenuta del regime del blocco della contrattazione collettiva per il lavoro pubblico, quale risultante dalle norme impugnate e da quelle che lo hanno prorogato. La Corte ha respinto le restanti censure proposte”.



Vi è pertanto una differenza sostanziale rispetto a quanto la stessa Corte aveva stabilito solo poco tempo fa in merito al blocco dell’adeguamento all’inflazione delle pensioni, pubbliche e private, stabilito dai medesimi provvedimenti di finanza pubblica. In quel caso la decisione, peraltro molto contestata e non solo per i suoi possibili effetti sulla finanza pubblica, era sembrata voler salvaguardare i cosiddetti “diritti acquisiti”, rimuovendo retroattivamente le norme sospensive e obbligando il governo a introdurre con un nuovo provvedimento una differente modulazione delle deindicizzazioni.



Bisognerà leggere in dettaglio la nuova sentenza della Corte per poterne valutare appieno le argomentazioni che la hanno condotta a una non simmetrica decisione, tuttavia un argomento di rilievo è già possibile ipotizzare: nel caso delle pensioni sussisteva una precisa regola di adeguamento all’inflazione la cui applicazione ex post, una volta dichiarato incostituzionale il blocco, avrebbe permesso di ricostruirne con precisione l’importo. Nel caso degli stipendi pubblici non è invece possibile ricostruire quali effetti avrebbe prodotto sul loro livello la contrattazione collettiva, che non vi è stata, date le norme di blocco. La dinamica delle pensioni è conseguenza di una precisa regola, quella degli stipendi pubblici no.

Questa differenza deve aver indubbiamente aiutato la Corte a propendere per una sentenza senza valore retroattivo e, grazie a esso, senza neppure effetti immediati e consistenti sulla spesa pubblica: i contratti pubblici e i conseguenti adeguamenti e scatti dovranno necessariamente riprendere dal prossimo anno, ma le amministrazioni pubbliche non saranno tenute a versare nulla a compensazione dei cinque anni trascorsi con stipendi pubblici fermi.

Ovviamente la ripresa della contrattazione per i circa 3,3 milioni di dipendenti delle amministrazioni pubbliche comporta per i prossimi anni oneri potenziali non indifferenti per il settore pubblico, la cui sostenibilità e compatibilità con i “numeri” di bilancio già concordati con l’Unione europea dovrà essere attentamente valutata. Così come non siamo in grado di valutare le motivazioni della Corte, non ancora rese note, non siamo neppure in grado di effettuare stime su quali possano essere gli spazi di incremento per le remunerazioni pubbliche, salvo ragionevolmente anticipare che essi non possano essere che esigui, quanto meno in termini di costo totale del pubblico impiego.

In estrema sintesi, il settore pubblico non può permettersi, e non lo potrà fare per molto tempo a venire, aumenti di costo che non siano adeguatamente compensati da aumenti di produttività. I salari pubblici sono finanziati con prelievi obbligati sui redditi privati e se non riprendono a crescere questi ultimi, non possono riprendere a crescere significativamente neppure i primi.

Fermo restando che su questi temi e ragionamenti si dovrà tornare, quello che invece è interessante vedere ora è qualche numero significativo in grado di dirci quanto hanno “perso” con il blocco i dipendenti pubblici e se esso può ragionevolmente apparire eccessivo oppure sostenibile alla luce dei difficili anni di recessione e di contemporanea crisi della finanza pubblica che abbiamo attraversato dal 2008 a ora. Un primo dato statistico da guardare è l’indice Istat delle retribuzioni contrattuali: quelle del settore pubblico figurano tutte piatte e l’indice, posto uguale a 100 nel 2010, su tale livello risulta inchiodato anche nel mese più recente disponibile. Invece l’indice delle retribuzioni contrattuali del settore privato dell’economia, sempre posto uguale a 100 nel 2010, risulta ora pari a 108,5, segnalando un incremento complessivo nel periodo dell’8,5%, superiore di un punto percentuale all’incremento dei prezzi che si è verificato nello stesso periodo.

Considerando che nell’intero anno 2014 la spesa totale per il pubblico impiego è stata di 163,9 miliardi di euro, se le retribuzioni pubbliche avessero seguito nell’intero periodo di blocco quelle private, il maggior onere per la finanza pubblica sarebbe stato lo scorso anno pari a 13,9 miliardi (12,3 miliardi, invece, nell’ipotesi di crescita delle retribuzioni pubbliche in linea con l’inflazione al consumo). Queste cifre confermano le stime presentate dall’Avvocatura dello Stato alla Corte Costituzionale: 13 miliardi quale effetto attuale su base annua (“effetto strutturale”) e 35 miliardi come effetto complessivo dall’inizio del blocco. Quello che gli organi di stampa non hanno tuttavia precisato nel riportarle è che si tratta di effetti stimati al lordo del prelievo fiscale applicabile a tale importi e non di effetti netti sui saldi pubblici.

Possiamo tuttavia sostenere in base a esse che il blocco abbia generato oneri consistenti e non equi sul pubblico impiego? La risposta non può essere al momento affermativa. Bisogna infatti considerare le dinamiche retributive del settore pubblico in confronto a settori di occupazione più direttamente confrontabili, non necessariamente il settore privato nella sua interezza. E inoltre per un arco temporale un po’ più lungo di quello nel quale è stato operativo il blocco. Può darsi infatti che il blocco sia stato introdotto per porre termine a una fase nella quale siano stati inopportunamente concessi incrementi salariali maggiori rispetto ai settori confrontabili e magari non giustificati e non sostenibili.

Il primo grafico a fondo pagina, di fonte Aran, mette a confronto la dinamica delle retribuzioni di fatto lorde pro capite dal 2005 per tre distinti settori: la Pubblica amministrazione, i servizi prodotti dal settore privato e dunque destinati alla vendita, l’industria manifatturiera. Poiché la Pa produce servizi non destinati alla vendita è evidente che il confronto più appropriato è con i servizi privati e non con l’industria manifatturiera, potenzialmente soggetta a ben maggiori incrementi di produttività, permessi dal rapporto tra capitale fisico e lavoro e dal progresso tecnico. Come si può osservare dal grafico, le retribuzioni medie della Pa sono cresciute nel quinquennio 2005-10 in linea con quelle dei servizi privati ed entrambe un po’ di più dell’inflazione al consumo e di meno rispetto alle retribuzioni dell’industria manifatturiera. Poi, a partire dal 2010, per effetto congiunto del blocco della contrattazione e degli scatti e del blocco del turnover nella Pa la loro crescita si arresta e anzi si riducono lievemente in termini nominali (per effetto dell’uscita per pensionamenti di dipendenti pubblici con remunerazione superiore a quella media). Al 2013 la perdita rispetto ai servizi privati risulta pari al 5,6%.

Questa è la storia, se la raccontiamo dal 2005. Ma essa risulta sensibilmente diversa se la raccontiamo invece a partire dal 2000. Perché è opportuno raccontarla dall’inizio del decennio? Perché l’ammissione del nostro Paese alla moneta unica permise, soprattutto nella prima parte del decennio, una drastica riduzione della spesa pubblica per interessi sul debito che fu notoriamente utilizzata per accrescere altre voci di spesa pubblica, tra le quali il pubblico impiego.

Il secondo grafico, sempre di fonte Aran, mette a confronto la dinamica delle retribuzioni di fatto degli stessi tre settori, Pubblica amministrazione, servizi destinati alla vendita e industria manifatturiera, tuttavia dal 2000 anziché dal 2005. Come si può osservare, le retribuzioni medie della Pa sono cresciute nell’intero decennio 2000-10 molto di più di quelle dei servizi privati e anche sensibilmente di più rispetto alle retribuzioni dell’industria manifatturiera, senza che vi fossero ragioni economiche legate alla produttività. Poi, a partire dal 2010, si è manifestata per effetto del blocco la nota dinamica che ha ricondotto il percorso delle retribuzioni della Pa al di sotto di quello dell’industria manifatturiera, ma non al di sotto delle retribuzioni dei servizi privati. In estrema sintesi: il blocco dell’ultimo quinquennio sarà stato pure fastidioso per i dipendenti interessati, ma esso si è rivelato indispensabile per recuperare precedenti incrementi non giustificati e non più sostenibili alla luce degli effetti della recessione economica sulla finanza pubblica.

Ora che la forbice coi servizi privati si dovrebbe essere chiusa è evidente che non vi è neanche più una ragione economica per conservare il blocco contrattuale, ma il rinnovo dei contratti non può permettersi ovviamente un ritorno alle allegre dinamiche della prima metà degli anni 2000.

 

Grafico 1 – Retribuzioni lorde pro-capite nella PA e nei settori privati

Indici 2005 = 100

 

 

Grafico 2 – Retribuzioni lorde pro-capite nella PA e nei settori privati

Indici 2000 = 100