Dovremmo chiederci, prendendo a prestito il titolo di un famoso romanzo di Fruttero & Lucentini, a che punto è la notte dell’economia italiana? L’unica alternativa che si deve escludere con assoluta sicurezza è quella di una nuova alba radiosa, una seconda, dopo l’inaspettata rinascita del boom economico degli anni ‘50 e ‘60, quando un Paese uscito distrutto dalla guerra seppe stupire tutto il mondo occidentale. Ma anche tutte le altre ipotesi sulla metà ottimistica dell’asse delle possibilità rivelano probabilità trascurabili. Dobbiamo invece concentrarci sulla metà pessimistica, nei dintorni del punto zero che segna, come su un termometro atmosferico, il riferimento principale: né recessione, né crescita. Sino alla fine del 2014 eravamo di poco al di qua: valori piccoli ma segno meno; con l’inizio del 2015 siamo andati poco al di là: segno più, ma valori appena percettibili, forse neppure più grandi del margine di errore statistico.



Come andrà da qui in avanti? Ovviamente non lo sappiamo, ma formulare ipotesi ragionate è sicuramente utile. Molti erano e sono tuttora i fattori di segno positivo che sarebbero risultati, in altre epoche, in grado di far da traino in maniera consistente alla crescita economica: (1) un contro-shock petrolifero paragonabile a quello della metà degli anni ‘80, una vera manna per un’economica come la nostra fortemente dipendente dalle importazioni energetiche; (2) un deprezzamento consistente del cambio, una seconda manna che è discesa sul nostro export; (3) infine la più consistente di tutte, una politica monetaria della Bce che ha cercato e cerca in tutti i modi possibili di essere espansiva.



Di quanto sarebbe cresciuta l’economia italiana grazie a questi tre miracoli economici congiunti se ci fossimo trovati negli anni ‘80? Forse dire del 5% su base annua potrebbe risultare ottimistico, ma di sicuro il 4% sarebbe stato superato. E invece siamo qui a barcamenarci tra numeri da prefisso telefonico: non il 4% o 5% bensì lo 0,4% o lo 0,5%. Tre miracoli economici congiunti, tutti piovuti dal cielo internazionale e non guadagnati da azioni laboriose e scelte avvedute entro i confini nazionali non solo non producono miracoli ma quasi nessun effetto di rilievo. E per di più potrebbero attenuarsi o cambiare di segno con il nuovo accentuarsi della crisi greca. Dove saremmo ora senza di loro?



E com’è possibile che essi non producano effetti di rilievo? Se gli effetti benefici generati dai fattori internazionali non penetrano in Italia vuol dire che sono ostacolati, impediti da una sorta di filtro, di muro, di barriera che li ferma quasi integralmente, come lo scudo spaziale delle Guerre stellari. Questo scudo deflettore è composto da una stratificazione di difetti nazionali e di cattive politiche, storicamente condotte, che non appare fattibile rimuovere in tempi ragionevoli, principalmente per il fatto che tanto i difetti quanto le cattive scelte sono strenuamente difese da categorie organizzate e agguerrite di cittadini.

In questo contesto non è neppure possibile formulare una diagnosi corretta dei problemi che possa essere condivisa e costituire in tal modo premessa per la ricerca della loro soluzione. Una diagnosi corretta è inevitabilmente destinata a restare minoritaria e a far correre rischi a chi la formuli mentre una diagnosi in grado di raccogliere consenso non può che trovare una capro espiatorio esterno e risultare totalmente assolutoria verso chi i problemi li ha creati: non risultando plausibile la sfavorevole congiuntura astrale o il destino cinico e baro non può che trattarsi della moneta unica europea o il desiderio di potenza della Germania a guida Merkel o il totalitarismo normativo dei burocrati di Bruxelles. In estrema sintesi, tutti i mali dell’Italia stanno in Europa ma tutti senza eccezione al di fuori dei confini nazionali. Roma non ha colpa, tutte le colpe sono di Cartagine. Per inciso, non abbiamo sentito dire cose analoghe anche in Grecia?

Una spesa pubblica crescente, inefficiente, improduttiva da chi e dove è stata decisa e attuata negli anni? Forse dal Parlamento di Berlino? Un sistema pensionistico che restituisce un multiplo dei contributi versati, per di più crescente al crescere della condizione economica dei beneficiari, da chi e dove è stato deciso? Va forse a beneficio dei pensionati bavaresi? Un’organizzazione della Pa nella quale i costi sono totalmente scorrelati ai risultati da chi è stata realizzata? Un sistema della dirigenza pubblica privo di filtri di reclutamento paragonabili agli altri paesi evoluti, che garantisce una remunerazione in rapporto a quella media dei cittadini che non trova riscontro in nessun altro Paese occidentale, che non assume in base ai meriti dei candidati e ai bisogni dell’organizzazione e non licenzia nessuno in caso di demerito e quando non vi è più necessità chi ce lo ha imposto? Un imperatore bizantino?

Un sistema giudiziario che non produce giustizia se non casualmente e con tempi irragionevoli, e dunque ingiusti, chi ce lo ha creato? Un sistema di norme e regole crescente in maniera incontrollata, come le scope dell’apprendista stregone, quale sortilegio di mago nordico ce lo ha appioppato? Un fisco rapace, in grado di scoraggiare ogni iniziativa economica, chi ce lo ha imposto? Forse un primo ministro transilvano? Un vasto sistema di imprese pubbliche, protette dalla concorrenza e dal mercato dallo stesso Stato regolatore che dovrebbe garantirlo, da chi è stato realizzato? Dal partito comunista della defunta Unione Sovietica? E una corruzione da Paese del terzo mondo? È stata forse irrorata da piogge africane?

Non parliamo, per favore, di riforme. Non prendiamoci in giro. In Italia le riforme si possono immaginare, si possono annunciare, si possono anche rappresentare, nel senso teatrale della messa in scena, ma non si possono certo fare. Esse sono impedite da una difesa a oltranza da parte di qualsivoglia categoria sociale organizzata di qualsiasi posizione, rendita, vantaggio conquistato nel tempo grazie allo scudo “spaziale” dei diritti acquisiti. Lo Stato si è sbagliato nel tempo a calcolare le pensioni, adottando criteri di determinazione incoerenti rispetto ai contributi sociali versati? Ragioni di equità e nello stesso tempo di sostenibilità dei conti pubblici richiederebbero di ricalcolarle.

Cosa succede se un ristoratore sbaglia il conto di un cliente scordandosi di conteggiare alcune portate? Richiama la persona interessata e le chiede, scusandosi, di versare la differenza oppure mette in carico le portate all’avventore successivo, che non le ha consumate? Ogni ragione va in favore della prima ipotesi. Invece, grazie ai diritti acquisiti, l’avventore favorito dal conto errato pretende di tornare a cena ogni sera, beneficiando delle medesime condizioni economiche. E pretende che qualcun altro continui a saldare la differenza. Ma questo qualcuno, se può, cambierà al più presto ristorante. Mai sentito parlare di fuga dei cervelli?

Come può un Paese del genere ritornare a crescere, svilupparsi, costituire esempio per la comunità europea e internazionale? Semplicemente non può. Siamo condannati a restare in prossimità della linea dello zero. Se fuori di noi le cose vanno bene, la coltre dei nostri difetti ci impedisce di trarne vantaggio, se non marginalmente. Ma se vanno male essa le amplifica e le moltiplica. In ambedue i casi ci allontaniamo, meno velocemente o più velocemente a seconda dei casi, dai nostri partner e dai nostri concorrenti. Questa cosa, non da oggi, si chiama declino.