L’argomento dei risparmi di spesa pubblica è stato sinora molto utilizzato nel dibattito sulla riforma della Costituzione, in particolare in diversi interventi del primo ministro. Nel 2014, in sede di presentazione della riforma, essi furono indicati in un miliardo: “Con le riforme risparmi per 1 miliardo di euro”(Intervista del direttore di SkyTg24 Sarah Varetto a Matteo Renzi del 31 marzo 2014). Più recentemente tale cifra è stata drasticamente ridimensionata dal governo a mezzo miliardo, senza peraltro che sia stata data alcuna spiegazione del mutamento della stima: “La riforma costituzionale porta 500 milioni di euro di risparmi”(Dichiarazione di Renzi riportata da ANSA il 22 settembre 2016).



Anche questa cifra è stata tuttavia oggetto di molte contestazioni. Il Fatto Quotidiano del 9 giugno 2016 riporta i dati di un documento della Ragioneria Generale dello Stato (Rgs) del 28 ottobre 2014 secondo il quale i risparmi certi ammonterebbero a soli 57,7 milioni all’anno, di cui 40 milioni per la riduzione del numero dei senatori e la contestuale abolizione dell’indennità per i nuovi senatori di espressione regionale, 9 milioni per l’abolizione della diaria e 8,7 milioni per l’abolizione del Cnel. Per quanto riguarda invece l’abolizione delle province, il documento ritiene che essi non siano quantificabili, dipendendo non dalla norma costituzionale, bensì dalle modalità di effettiva attuazione della legge di riordino delle città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni. A una stima analoga a quella della Rgs perviene il sen. Lucio Malan in un documento presente sul sito del Comitato per il No: 50,2 milioni contro i 490 dichiarati in sede parlamentare dal ministro per le Riforme Maria Elena Boschi.



Bisogna inoltre ricordare che il tema della riduzione della spesa assume un ruolo rilevante nel nome dato alla legge di riforma e, per conseguenza, anche nel testo del quesito referendario sul quale si voterà il prossimo 4 dicembre, il quale riporta l’intestazione della legge. Infatti, tre dei cinque argomenti indicati fanno riferimento a risparmi di spesa: “… riduzione del numero dei parlamentari, contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, soppressione del Cnel…”. Tali provvedimenti sono peraltro racchiusi in due soli articoli dei 47 totali oggetto della revisione costituzionale.



Questo dà luogo perlomeno a una stranezza statistica: la riforma costituzionale modifica 47 articoli su 139 totali, corrispondenti al 34%, ma di essi 46 sono compresi negli 85 della Parte seconda della Costituzione. La riforma modifica dunque il 54% degli articoli della Parte seconda. Di essi solo il nuovo testo di due, il 57 sulla nuova composizione del Senato e il 99, abrogato, relativo al Cnel, danno luogo a risparmi presunti di spesa, ma essi occupano ben i tre quinti degli argomenti della riforma riportati nella scheda referendaria. Vi è quindi un intruso: il “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni” non corrisponde in realtà a nessuna modifica specifica del testo costituzionale, ma solo a effetti ipotizzati di un paio di esse. Si può pertanto sostenere che l’etichetta posta sulla riforma costituzionale non identifichi esattamente e compiutamente gli ingredienti della medesima.

È palese, invece, il ruolo assegnato al tema dei risparmi di spesa ai fini dell’accettabilità della riforma da parte dei cittadini chiamati al voto. Per questo una loro corretta misurazione appare fondamentale. Chi, tra il governo e i suoi critici, ha ragione? L’unico modo per poterlo dire con cognizione di causa è quello di realizzare una misurazione autonoma e dettagliata.

1) Abolizione delle Province. Il sen. Malan nel suo documento contesta quanto dichiarato dal ministro Boschi, secondo cui: “Dal superamento delle province, solo in termini di risparmio per il personale politico, si sono quantificati circa 320 milioni di euro all’anno”. Infatti, la gratuità degli incarichi di presidente della provincia, consigliere, componente dell’assemblea dei sindaci, sindaco metropolitano, consigliere metropolitano, componente della conferenza metropolitana è stata introdotta dalla legge Delrio del 2014 e al riguardo la cancellazione delle Province dal testo costituzionale non può evidentemente comportare alcun risparmio aggiuntivo rispetto alla spesa in essere.  

2) Riduzione del numero dei senatori e gratuità del mandato dei nuovi senatori regionali. Per una stima corretta dei risparmi derivanti dalla nuova composizione del Senato risulta preferibile partire dal conto consuntivo dell’anno 2015, base più solida rispetto al bilancio previsionale del 2016. Nell’ultimo anno il Senato ha sostenuto spese complessive per 495,8 milioni, proseguendo nel trend di riduzione degli anni precedenti (nel 2012 erano state pari a 520,6). Dei 495,8 milioni, tuttavia, ben 216,9 (il 44%) sono rappresentati dal pagamento dei vitalizi/pensioni agli ex senatori e delle pensioni agli ex dipendenti (rispettivamente 78,7 e 138,2 milioni). Tali spese non potrebbero essere evitate neppure nell’ipotesi di totale abolizione del Senato. Gli effettivi costi di funzionamento del Senato sono dati pertanto dai restanti 278,9 milioni che divisi per il numero dei senatori danno luogo a una spesa media pro capite pari a 869 mila euro. All’interno dei 278,9 milioni di costi di funzionamento totali, tuttavia, le indennità di mandato pagate ai senatori si fermano a 40,2 milioni, corrispondenti a 128 mila euro pro capite. 

La riduzione del numero dei senatori e la gratuità del mandato per i nuovi senatori regionali comporta un risparmio per il Senato pari a tutti i 40,2 milioni. Il fisco peraltro non vedrà le imposte dirette che prima venivano pagate su tale cifra. Stimando un’aliquota media del 38% si tratta di 15,7 milioni, i quali riducono il risparmio netto per le casse pubbliche a 24,5 milioni. Vi sono poi i rimborsi indennitari per i senatori (diaria e rimborsi vari), pari complessivamente a 36,1 milioni. Ipotizzando che di essi si possa risparmiare una quota pari alla riduzione dei senatori determinata dalla riforma in rapporto ai 320 senatori attuali, si stima un risparmio di 24,3 milioni, che al netto delle minori imposte recuperate dal fisco, si riduce a 19,4 milioni. In conseguenza il risparmio totale derivante dalla nuova composizione del Senato è stimabile in 43,9 milioni. 

Questa è però solo una cifra lorda. Come abbiamo visto in precedenza, una quota consistente delle spese del Senato è rappresentata dalle pensioni e vitalizi in favore degli ex senatori. E dopo le prossime elezioni cosa faranno i senatori uscenti salvo chiedere la pensione se in possesso dei requisiti? Infatti, nessuno potrà rientrare nei 100 nuovi senatori, dato che essi saranno consiglieri regionali e sindaci inviati in Senato. Si avrà pertanto un afflusso mai visto in precedenza di senatori uscenti agli sportelli pensionistici e l’effetto sulla spesa del Senato risulterà tutt’altro che trascurabile.

Facciamo qualche stima: nel 2018, alla scadenza dell’attuale legislatura, vi saranno oltre 150 senatori che avranno compiuto o compiranno nell’anno i sessant’anni. Non tutti avranno immediatamente diritto alla pensione, ma solo quelli con almeno due mandati alle spalle. Sottraendo al numero precedente gli ultrasessantenni del 2018 che sono stati eletti nel 2013 al primo mandato, pari a 60 senatori, restano circa 90 senatori che potranno accedere alla pensione. Ipotizzando un esborso medio pro capite pari a 50 mila euro, l’onere per le casse del Senato sarà pari a 4,5 milioni di euro. In sostanza, con la nuova composizione del Senato saranno risparmiati all’anno 43,9 milioni per minori indennità, diarie e rimborsi e spesi 4,5 milioni in più per le pensioni dei senatori esodati dalla riforma Renzi. L’effetto netto sarà pertanto limitato a 39,4 milioni.

È inoltre necessario far notare come la riduzione dei costi del Senato risulti contenuta non solo in cifra assoluta, ma anche in termini percentuali. Considerando le sole spese di funzionamento (detratte dunque le pensioni), esse passerebbero da 278,9 milioni a 235, con una diminuzione del 15,7%. Invece i senatori passano da 320 a 100, con una riduzione del 68,8%. Il costo medio annuo per senatore è pertanto destinato a esplodere­: da 869 mila euro nel 2015 a due milioni e 350 mila euro, con un aumento del 170%.

3) Abolizione del Cnel. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, l’abolizione del Cnel prevista dalla riforma non è destinata a realizzare alcun risparmio di spesa aggiuntivo rispetto a quelli già realizzati, senza modifiche costituzionali, negli scorsi anni. Infatti, il costo del Cnel, dopo essere arrivato a sfiorare i 20 milioni di euro all’anno, si è progressivamente ridotto nel tempo sino a scendere a circa 11 milioni, di cui due riconducibili alle indennità del presidente e dei 64 consiglieri, altri due ai costi della struttura, la prestigiosa Villa Lubin all’interno di Villa Borghese, e sette ai costi del personale. Tuttavia non risulta che Villa Lubin sarà posta in vendita, ma passerà invece alla Corte dei Conti, e pertanto non si vede come possano essere risparmiati i costi della struttura. In maniera analoga non risulta che i dipendenti saranno licenziati, ma verranno invece trasferiti ad altra amministrazione pubblica. Anche in questo caso nessun risparmio.  

Invece le indennità del presidente e dei consiglieri saranno effettivamente risparmiate: circa 230 mila euro per il presidente e il suo vice e poco meno di 1,7 milioni complessivi per gli oltre 60 consiglieri. Tuttavia questo risparmio è già stato realizzato, dato che la Legge di stabilità per il 2015 ha stabilito la gratuità delle funzioni di consigliere e di presidente. Pertanto nulla è più stato speso al riguardo negli ultimi due anni e nessun risparmio aggiuntivo si otterrà dalla definitiva abolizione del Cnel attraverso la riforma.

Si può a questo punto pervenire a tre conclusioni certe della nostra analisi:

1) i risparmi di spesa resi possibili dalla riforma costituzionale, attestandosi su 39-40 milioni all’anno, sono irrisori: essi corrispondono a meno della metà di un decimillesimo della spesa pubblica italiana totale;

2) la loro evocazione quale argomento chiave del dibattito sulla bontà della riforma appare ingiustificata;

3) il fatto che occupino ben tre quinti dei temi ricordati nell’intestazione della legge e nella scheda referendaria è un fatto ingannevole.