A pochi giorni dal referendum costituzionale, l’Italia appare nettamente divisa in due. Il fronte del No è eterogeneo nella composizione e la diversità di motivazioni appare evidente, privilegiando alcuni quelle più strettamente legate ai contenuti delle modifiche costituzionali e altri quelle più di carattere politico. D’altra parte è stato lo stesso premier a dare contenuto politico tanto alla riforma quanto alla consultazione e dunque nessuno si può lamentare se lo scontro ha assunto una dimensione più ampia. Tuttavia anche il fronte del Sì si caratterizza per una netta differenza di motivazioni: da un lato chi sostiene con apparente convinzione la bontà delle modifiche introdotte dalla Carta costituzionale, dall’altro chi ritiene invece che esse non siano positive, o siano anche molto negative, ma teme le conseguenze, politiche ed economiche, di una vittoria del No.
Il mio intervento è rivolto principalmente ai secondi, ritenendo di non essere in grado di far cambiare idea ai primi. Sostengo infatti con convinzione il No per ragioni di contenuti, non politiche, e ritengo che il dibattito sulle regole della democrazia dovrebbe essere tenuto nettamente distinto dalla concorrenza tra partiti per governare il Paese. In un qualsiasi gioco, dalla briscola a quelli delle recenti olimpiadi, i concorrenti desiderano la vittoria e sono in conflitto per essa, ma sulle regole del gioco risultano necessariamente d’accordo. Prima ci si unisce e ci si accorda sulle regole, poi ci si divide e si lotta per vincere.
In democrazia le regole fondamentali sono scritte in un documento che si chiama Costituzione ed esso è custodito in una sorta di cassaforte virtuale di cui nessun partito/giocatore possiede o deve possedere, da solo, le chiavi. Nella Costituzione è scritto, in particolare, tutto quello che chi vince la partita non può fare. Si tratta di vincoli posti a tutela di chi oggi perde, affinché domani possa anche vincere, e di chi oggi vince qualora in futuro gli tocchi di perdere. Ma poiché chi vince governa sui cittadini, in ogni Costituzione è anche scritto tutto ciò che egli non può fare loro.
Se siamo d’accordo su questo chiediamoci dunque a cosa dovrebbe servire la Costituzione italiana. A rendere più facile l’azione del governo oppure a rendere più difficile che essa possa allontanarsi dalla volontà effettiva e dall’interesse dei cittadini elettori? Le riforme introdotte in Italia su iniziativa del governo e oggetto del prossimo referendum sono state giustificate, in grande sintesi, da obiettivi di velocizzazione dei tempi delle decisioni politiche, di riduzione dei costi della politica e di stabilità dei governi, la cosiddetta governabilità. La validità di questi argomenti è tuttavia facilmente smentita se si considera che la massima realizzazione di tali obiettivi era garantita sotto le monarchie assolute, prima che i filosofi del liberalismo inventassero costituzioni, democrazie rappresentative e parlamenti e i padri dell’indipendenza degli Stati Uniti mettessero tutto in pratica per primi nell’ultimo quarto del Settecento.
Sotto questa luce storica quelli del premier appaiono allo stesso tempo argomenti pre-democratici e, probabilmente, post-democratici: il Re Sole decideva da solo e in conseguenza i costi delle decisioni di governo erano irrisori rispetto alle democrazie contemporanee, ma le sue decisioni non erano certo nell’interesse dei sudditi. Per evitare i danni alla collettività prodotti da quell’efficientissimo e velocissimo decisore rappresentato dal monarca assoluto a un certo punto è stata introdotta la democrazia rappresentativa, costituita da un sistema di vincoli, più o meno costosi, progressivamente diffusi in tutti i paesi evoluti per evitare che i governi potessero fare quello che desideravano a danno dei loro cittadini.
“Lo Stato è il servitore del popolo, non il suo padrone” sosteneva W. Churchill. Ma com’è possibile che questo auspicio si traduca in realtà? Come può il popolo evitare di essere asservito allo Stato, e dunque di essere posto in balia di chi è in grado di controllarlo? Occorre evidentemente che i cittadini siano in grado di dominare lo Stato perché in caso contrario sarà lo Stato a dominarli. È il caso del cavallo e del cavaliere: andrà il cavallo dove vuole il cavaliere, oppure sarà il cavaliere a essere portato dove vuole il cavallo? Se il cavaliere non è in grado di controllare il cavallo avverrà infatti l’opposto. Il cavallo è lo Stato, il cavaliere è il popolo e la democrazia è quella procedura che permette al cavaliere di mettere le briglie al cavallo e di guidarlo grazie alle redini; le briglie sono la separazione dei poteri, attuata dalle Costituzioni, le redini il Parlamento.
Chi è stato a inventare le briglie? John Locke, che le ha descritte per la prima volta nel 1690 nel “Secondo trattato sul governo”. In tale opera ha precisato i caratteri che sarebbero stati successivamente posti a fondamento di ogni democrazia liberale. Primo: l’unico titolare della sovranità è il popolo. La “comunità pone il potere legislativo nelle mani che giudica opportune, con la fiducia che sarà governata per mezzo di leggi dichiarate (…) tuttavia essendo il legislativo solo un potere fiduciario inteso a certi fini, resta sempre al popolo il potere di destituire o mutare il legislativo quando ritiene che esso agisce in modo contrario alla fiducia in esso riposta”. Se la fiducia viene meno “il potere (deve) ritornare nelle mani di coloro che l’hanno conferito”.
Secondo: la certezza della legge. La democrazia è il governo di leggi introdotte dopo una lunga deliberazione da parte di rappresentanti scelti a ragion veduta dal popolo, e che vengono promulgate in modo che tutti possano venirne a conoscenza. Terzo: la separazione dei poteri. Chi fa le leggi non è lo stesso potere che le applica, a garanzia che esse si applichino anche a chi le ha fatte: “Data la debolezza umana, incline a impossessarsi del potere, per coloro che hanno il diritto di fare le leggi può essere troppo grande la tentazione d’impadronirsi anche del diritto di eseguirle, esonerandosi così dall’obbedienza alle leggi stesse ch’essi fanno…”. Pertanto il potere legislativo e quello esecutivo sono separati.
Quarto: il potere fondamentale è il legislativo. “Ciò che può dare leggi ad altri deve di necessità essergli superiore (…). Il legislativo deve necessariamente essere il potere supremo, e tutti gli altri poteri devono derivare da esso ed essergli subordinati”. In sintesi: il potere legislativo deriva dal popolo e tutti gli altri poteri derivano dal legislativo. In tal modo è delineato il meccanismo di controllo del popolo sullo Stato: il popolo, controllando direttamente il legislativo il quale controlla il governo, controlla indirettamente quest’ultimo. È in questo modo che il popolo cavaliere controlla lo Stato cavallo.
A questo punto non resta che porci due domande: la democrazia italiana funziona attualmente in conformità al modello di Locke? E dopo le riforme di Renzi sarà più vicina o più distante rispetto a tale modello? Purtroppo già la prima risposta è negativa. Primo: le leggi italiane sono tutt’altro che certe, coerenti e conoscibili per i cittadini che dovrebbero rispettarle. Renderle tali sarebbe la prima riforma necessaria. Secondo: i cittadini non scelgono i parlamentari che li debbono rappresentare, ma essi sono scelti al loro posto dai partiti, tanto che il sistema elettorale, che ha dato alla Camera un premio di maggioranza esorbitante al partito di maggioranza relativa, è stato dichiarato incostituzionale. Terzo: il Parlamento, eletto con sistema elettorale incostituzionale, non esercita più in maniera autonoma il potere legislativo, dato che i provvedimenti di iniziativa parlamentare sono una quota irrisoria dei totali mentre quelli di iniziativa governativa sono approvati a tamburo battente, senza alcuna possibilità di una riflessione critica e di un controllo effettivo. In questo modo sono stati approvati anche il nuovo sistema elettorale, l’Italicum, e le modifiche costituzionali oggetto del prossimo referendum.
In barba alle prescrizioni di Locke le riforme, che hanno per oggetto gli strumenti coi quali i cittadini grazie al Parlamento controllano il governo, sono state imposte del controllato al suo controllore. Se è il cavallo che si sceglie la briglia è ben difficile che non si scelga quella più lasca possibile.
La funzione della riforma costituzionale è, in congiunzione con l’Italicum, esattamente quella di congelare, di rendere irreversibile, tuttavia accentuandolo, il quadro attuale sopra descritto, garantendo un vuoto di controllo effettivo del cittadino elettore e una comoda autoreferenzialità del potere. Non sarà più l’elettore attraverso il Parlamento a controllare il governo, come indicato da Locke, bensì il governo a controllare il Parlamento e possibilmente anche l’elettore. Queste sono, in sintesi, le ragioni della mia scelta al prossimo referendum.