La fiducia è una cosa seria e si da alle cose serie, ma il bonus non è una cosa seria. È per questo che non ottiene la fiducia dei cittadini, nonostante sia il principale strumento col quale il governo Renzi ha tentato e sta tentando di riavviare la domanda interna per consumi.
I miei studenti mi chiederebbero perché non lo considero una cosa seria: ad esempio, perché non è serio lo strumento oppure perché non è serio chi sta tentando di usarlo? Temo per entrambe le ragioni e cerco di spiegarlo. Vediamo su un vocabolario il significato di “bonus”: 1) ciò che viene dato o ricevuto in aggiunta a ciò che spetta di diritto o è pagato; 2) gratifica concessa da un’azienda ai suoi dirigenti a titolo di incentivo.
Ecco, bastava aprire un qualsiasi vocabolario per scoprire che il bonus non poteva funzionare per gli scopi per cui si è cercato di usarlo: in primo luogo è qualcosa di straordinario e non di permanente; inoltre, è facoltativo, non dovuto in base alle regole ordinarie. Viene dato per bontà di chi lo concede e non per un diritto di chi lo riceve, potremmo dire “gratis et amore Renzi”; oggi viene dato e domani può non essere ripetuto, anzi, trattandosi del governo, che può modificare le leggi a suo piacimento, oggi viene dato e domani può essere tolto, richiesto indietro. E può essere richiesto indietro doppio, oppure triplo, oppure anche di più. Se oggi qualcuno di cui non mi fido mi lascia ottanta euro, appare avventato spenderli; molto meglio accantonarne centosessanta o duecentoquaranta, per essere pronti e liquidi quando ce li chiederà indietro. Più o meno come si dovrebbe fare di fronte al prestito di un usuraio.
Appare dunque azzardato usare un mezzo transitorio per ricercare effetti permanenti. Se poi l’attore dello strumento non riscuote grande credito presso i destinatari è fuori dubbio che gli effetti non vi saranno o risulteranno di segno opposto a quello auspicato.
Il bonus è, nella versione migliore, l’attenuazione temporanea o la compensazione temporanea di un carico fiscale. Tuttavia per essere efficace dovrebbe essere permanente e per risultare anche credibile dovrebbe essere preceduto da un risparmio permanente di spesa pubblica, attuato a seguito di una revisione rigorosa della medesima. Esattamente quello che non si è fatto. Infatti, la spesa pubblica sta al politico di governo come il pennello all’artista, la voce al baritono o la bacchetta al direttore d’orchestra: senza il suo strumento nessuno di loro saprebbe più cosa fare. Non deve pertanto stupire l’elevato turnover dei revisori della spesa pubblica che si sono recentemente succeduti: era stata loro affidata una missione intrinsecamente impossibile. Molto più facile convertire all’ordine un black bloc, al pacifismo un adepto dell’Isis, alla castità un inveterato libertino, al capitalismo il lìder maximo in pensione di Cuba. Molto più semplice inviare una missione umana sul pianeta Marte.
Queste riflessioni sono stati indotte dalla lettura della notizia, comparsa ieri su Il Messaggero, secondo cui il governo avrebbe intenzione di varare dopo l’estate un arrotondamento a cento euro del bonus da ottanta a suo tempo concesso ai lavoratori dipendenti con basso reddito. Il bonus verrebbe inoltre esteso anche ai pensionati al minimo, quelli che percepiscono un assegno mensile inferiore a 500 euro. Il costo per le finanze pubbliche è indicato in 2,4 miliardi per il primo provvedimento e in ulteriori due miliardi per il secondo.
Le coperture non sono indicate, ma è noto a tutti l’amore del premier per la spesa pubblica in disavanzo, apparentemente giustificato da teorie keynesiane che furono tuttavia elaborate quando il peso del settore pubblico negli stati più sviluppati era inferiore al 20% del Pil e non, come avviene ora, superiore in molti casi al 50%. E, non dimentichiamolo, quando il peso dei debiti pubblici sul Pil era tal da far considerare lassista e pericoloso il limite del 60% che fu indicato nel trattato di Maastricht nel lontano 1992. Con gli occhi di allora anche la spesa pubblica tedesca realizzata da Angela Merkel verrebbe considerata assurdamente elevata.
Purtroppo, quando sarebbe indispensabile una serietà della finanza pubblica tipica della destra storica italiana degli anni ‘60 dell’800 siamo nuovamente di fronte a un approccio caratteristico del centrosinistra degli anni ‘60 del 900. Matteo Renzi sembra essere frutto dell’infelice congiunzione di Amintore Fanfani con la macchina del tempo di “Ritorno al futuro”, in grado di proiettare quell’approccio mezzo secolo in avanti, in un contesto economico totalmente diverso. E, sostiene qualcuno, senza le idee buone di quell’epoca. Allora si veniva fuori da un decennio di boom economico, oggi non si viene fuori da un decennio di recessione.