I consistenti tagli finanziari realizzati negli scorsi anni dallo Stato ai trasferimenti agli enti territoriali sono legittimi da un punto di vista costituzionale? Chi ai tempi avesse osato manifestare qualche piccolo dubbio al riguardo trova ora una prima conferma in una sentenza molto importante della Corte Costituzionale, pubblicata il 6 giugno ma sinora passata sotto silenzio, che dichiara parzialmente incostituzionale una norma contenuta in un provvedimento di finanza pubblica del 2012, emanato dal governo Monti, con la quale si realizzava un taglio aggiuntivo nei trasferimenti dal governo centrale alle autonomie locali e ai comuni in particolare.
La decisione della Corte ha un impatto apparentemente circoscritto ad alcuni aspetti di una singola norma, ma essa è tutt’altro che irrilevante sotto il profilo della correzione che il governo dovrà necessariamente dare dal punto di vista legislativo e delle conseguenze che tale correzione produrrà sui rapporti finanziari tra i diversi livelli di governo. Sono inoltre molto interessanti le motivazioni date dalla Corte ed è utile riflettere sull’ipotesi che esse possano estendersi, come un effetto domino, all’intera prassi utilizzata dal governo centrale a partire dall’emergere nel 2011 della crisi del nostro debito sovrano: quella di scaricare su comuni e regioni gran parte dello sforzo finanziario necessario per adempiere agli impegni internazionali.
Prima di illustrare in dettaglio la sentenza della Corte (lo faremo in una seconda puntata di questo intervento) è tuttavia necessario ricordare come funziona il bilancio pubblico dell’Italia e degli altri paesi Ue ai fini degli adempimenti europei: dal Trattato di Maastricht in avanti, gli Stati si impegnano a rispettare attraverso il Patto di stabilità determinati saldi tra entrate e uscite di competenza che si applicano al conto consolidato dell’intero settore pubblico nazionale, la cosiddetta “Pubblica amministrazione”, che è formata da tre ulteriori aggregati: l’amministrazione centrale, dunque il settore statale, gli enti previdenziali e le amministrazioni periferiche. Il soggetto che si impegna a realizzare gli obiettivi di finanza pubblica è pertanto lo Stato, ma i soggetti nazionali impegnati sono molto più numerosi.
Come si distribuirà tra questi soggetti lo sforzo di migliorare il saldo per rispettare gli impegni? Gli enti previdenziali possono fare ben poco, a meno che non si riducano le pensioni o si alzino ancora le aliquote contributive: la prima soluzione è invisa a qualunque governo politico e non è mai stata proposta se non in forme marginali (contributi di solidarietà) neppure dai governi tecnici; la seconda è impraticabile perché alzerebbe aliquote che sono già le più alte del pianeta e creerebbe ulteriore disoccupazione. Non restano in conseguenza che lo Stato centrale e le amministrazioni territoriali: come si distribuirà lo sforzo fiscale tra i due aggregati considerando che è lo Stato a deciderlo?
Come si poteva facilmente prevedere nell’ultimo quinquennio, dopo l’emergere della crisi fiscale dell’Italia, lo Stato ha scaricato gran parte dello sforzo sugli enti territoriali. Un’azione del tipo: “risana tu che a me viene da ridere”, oppure “taglia tu così evito di farlo io”. Qual era l’obiettivo concordato nel 2011 dallo Stato con Bruxelles in relazione all’intera finanza pubblica? Quello di portare in pareggio i conti pubblici dell’Italia addirittura entro il 2013. Lo ha fatto? Assolutamente no. Infatti, nello scorso anno abbiamo avuto un disavanzo pubblico ancora pari al 2,6% del Pil. Nel 2011, l’anno in cui furono presi gli impegni, il disavanzo di partenza dal quale si voleva rientrare fu invece del 3,7% mentre nel 2013, l’anno per il quale era stato promesso il pareggio, fu del 2,9%.
In sostanza in un quadriennio il miglioramento del disavanzo è stato di un solo punto percentuale, meno di un terzo di quello che era stato promesso di fare in soli due anni. In quattro anni l’intera finanza pubblica italiana ha realizzato meno di un terzo dell’obiettivo che era stato promesso per i primi due anni. E la finanza locale come è stata chiamata a contribuire all’obiettivo iniziale e a quello molto minore effettivamente realizzato? Semplicemente alla finanza locale, a ogni amministrazione locale, lo Stato centrale ha chiesto di portare il bilancio in attivo e non solo in attivo, ma anche in attivo consistente.
Tutto questo si è verificato attraverso il “Patto di stabilità interno”, strumento introdotto originariamente alla fine degli anni ’90 e attraverso il quale lo Stato richiede agli enti territoriali, dunque le regioni, le province e i comuni, di contribuire al raggiungimento degli obiettivi complessivi di finanza pubblica dell’Italia sottoscritti in sede europea. Il Patto di stabilità interno aveva originariamente la funzione di impedire che solo lo Stato centrale dovesse farsi carico dei vincoli europei, e dunque quello di realizzare un’equa ripartizione di tale onere tra il livello centrale di governo e quelli territoriali. Nell’ultimo quinquennio esso è stato tuttavia utilizzato dallo Stato centrale per far ricadere sulle autonomie locali una quota di tale vincolo: (i) assai maggiore di quella posta di fatto su di sé; (ii) in ogni caso ben superiore alla capacità finanziaria delle medesime di sostenerla.
Il Patto di stabilità interno ha operato con criteri diversi nel corso degli anni. Sino al 2010 il saldo obiettivo annuale di ciascun ente è stato commisurato al saldo finanziario effettivamente conseguito dall’ente medesimo in un precedente esercizio: gli enti con saldo negativo erano vincolati a un miglioramento del loro risultato, mentre gli enti con saldo positivo potevano avvalersi di margini di allentamento. A partire invece dal 2011, con la l. n. 220/2010, gli obiettivi del patto in termini di saldo tra le entrate finali (correnti più conto capitale) e le uscite finali (correnti più conto capitale) sono stati ancorati al livello della spesa corrente mediamente sostenuta da ciascun ente locale in un triennio di riferimento (2006-08 ai fini dell’obiettivo di saldo per il 2011, 2012 e 2013). Questo nuovo criterio ha reso molto più stringenti e impegnativi gli obiettivi da conseguire dato che ha vincolato gli enti territoriali al raggiungimento di un saldo positivo, espresso in percentuale delle spese correnti sostenute nel triennio di riferimento.
Tale saldo fu inizialmente posto all’11,4% delle spese correnti medie del triennio per l’anno 2011 e al 14% per i due anni successivi. Dal saldo così calcolato, al fine di evitare una doppia penalizzazione, andava detratto il taglio dei trasferimenti erariali subiti per effetto delle altre norme della manovra. I provvedimenti di finanza pubblica introdotti nel 2011, nella fase di crisi acuta del nostro debito sovrano, hanno tuttavia incrementato i valori percentuali richiesti per il saldo positivo: 15,6% per il 2012 e 15,4% per gli anni successivi.
Tali valori non erano tuttavia applicabili agli enti classificati da un apposito provvedimento governativo come “virtuosi” in base a determinati parametri fissati dalla legge. A essi era richiesto semplicemente un saldo non negativo tra entrate finali e uscite finali. L’elenco degli enti virtuosi pubblicato a metà 2012 non includeva tuttavia nessuna grande città italiana e tra i capoluoghi di provincia lombardi solo Brescia vi figurava. In seguito la Legge di stabilità approvata a fine 2012 stabiliva per gli anni dal 2013 al 2016 di determinare il saldo obiettivo in riferimento alla spesa corrente media del triennio 2007-2009 e di stabilire sino al 2016 un saldo obiettivo pari a zero per gli enti classificabili come virtuosi e al 14,8% per gli enti non virtuosi. Per il 2016 la regola è stata tuttavia allentata dalla Legge di stabilità approvata a fine 2015, pur solo provvisoriamente, ed è richiesto semplicemente un saldo globale non negativo.
In sostanza, al fine di ridurre negli scorsi anni il disavanzo complessivo del settore pubblico, obiettivo realizzato solo in minima parte, agli enti territoriali è stato chiesto di realizzare un attivo consistente. Come avremmo reagito se fosse stata l’Europa a imporre un simile obiettivo? Considerando che nel triennio 2007-09 i Comuni italiani hanno realizzato in media una spesa corrente annua pari a 49,3 miliardi, essi avrebbero dovuto conseguire complessivamente un avanzo annuo pari a 7,3 miliardi nel triennio 2013-15 (valore da cui detrarre l’importo riferibile ai comuni virtuosi, esentati dall’obiettivo).
Qual è stato l’impatto di queste stringenti regole su un grande comune come quello di Milano? Considerando che non era stato classificato come “virtuoso” nel famoso elenco governativo del 2012, proviamo a stimare qual era il saldo attivo richiesto dal Patto di stabilità interno per ognuno degli anni dal 2013 al 2015: considerando che la spesa corrente di Milano è stata pari in media nel triennio 2007-09 a 1.824 milioni, l’applicazione della percentuale del 14,8% portava alla richiesta di un saldo attivo pari a 270 milioni di euro (da cui detrarre il taglio subito di trasferimenti erariali). In sostanza era richiesto al Comune di coprire con le entrate di bilancio tutta la spesa corrente, tutta la spesa in conto capitale e di registrare inoltre un avanzo di 270 milioni, corrispondente a 200 euro per ogni cittadino di Milano. In rapporto alla dimensione totale del bilancio del Comune (parte corrente più conto capitale) era richiesto un avanzo del 9,2%. Cosa avremmo detto se l’Europa avesse imposto un simile obiettivo?
Poiché le regole per la finanza locale sono tutt’altro che certe per i prossimi anni e dunque i sindaci in essere e quelli di nuova nomina a seguito della corrente tornata elettorale non sanno quali compiti il governo centrale chiederà loro di fare nel prossimo autunno, è molto utile analizzare i contenuti e le possibili conseguenza della recente sentenza della Corte Costituzionale in relazione a un provvedimento di tagli agli enti territoriali del 2012. Ma poiché questa analisi richiede una certa ampiezza di testo la rimandiamo a una seconda puntata.
(1- continua)