Ho ricordato in un precedente intervento come la sentenza della Corte Costituzionale pubblicata il 6 giugno e con la quale è dichiarata parzialmente incostituzionale una norma del 2012 di riduzione dei trasferimenti statali ai Comuni faccia sorgere il sospetto che le sue motivazioni possano in realtà estendersi al di là della norma specifica e interessare, come un effetto domino, diversi altri aspetti dei provvedimenti di finanza pubblica con i quali i governi hanno progressivamente ridotto i trasferimenti alle autonomie locali e caricato su di esse gran parte dello sforzo di risanamento dei conti pubblici complessivi.



Il provvedimento di cui è stata dichiarata la parziale illegittimità è il comma 6 dell’art. 16, decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (“Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario”, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135), il quale disponeva per l’anno 2013 la riduzione di due fondi statali destinati ai Comuni, il “Fondo sperimentale di riequilibrio” e il “Fondo perequativo”, per un ammontare complessivo di 2,25 miliardi di euro. Esso stabiliva inoltre che la ripartizione del taglio complessivo tra i singoli Comuni fosse determinata con decreto “…del Ministro dell’interno, in proporzione alla media delle spese sostenute per consumi intermedi nel triennio 2010-2012, desunte dal SIOPE”.



Il riconoscimento da parte della Corte della non legittimità costituzionale è avvenuto su sollecitazione del Tar del Lazio, il quale nella sua ordinanza n. 195 del 2015 ha segnalato la violazione degli art. 3, 97 e 119, primo e terzo comma, della Costituzione. Sono quattro in particolare le violazioni evidenziate:

1) La norma non prevede, a differenza di quella previgente per i Comuni e vigente per le Province, un termine per l’adozione del decreto ministeriale di ripartizione tra i singoli enti del taglio e dunque per la determinazione del minor trasferimento spettante a ciascun Comune. In questo modo verrebbe lesa l’autonomia finanziaria dell’ente (art. 119 Cost.) e il suo buon andamento amministrativo in presenza di un’adozione tardiva del decreto ministeriale rispetto ai tempi di redazione del suo bilancio. Un intervento di riduzione a esercizio finanziario quasi concluso inciderebbe, infatti, sull’elaborazione e approvazione del bilancio previsionale, necessariamente condizionate alla possibilità di una corretta previsione delle entrate effettivamente disponibili.



2) La disposizione censurata violerebbe inoltre gli art. 3 e 97 della Costituzione nella parte in cui attribuisce in via diretta allo Stato la determinazione unilaterale del criterio di riparto della riduzione. Invece la definizione del riparto della riduzione dei trasferimenti ai Comuni del 2012 e alle Province del 2012 e dello stesso 2013 era stata affidata in prima istanza alla Conferenza Stato-Città e autonomie locali e solo nell’ipotesi di inerzia della medesima alla determinazione unilaterale dello Stato. La disposizione impugnata comporterebbe in conseguenza una lesione del principio di leale collaborazione tra i differenti livelli di governo.

3) Ulteriore fattore di criticità consiste nel fatto che la disposizione censurata individua il parametro per la determinazione della riduzione dei trasferimenti statali nelle spese sostenute, da parte di ciascun ente locale, per i consumi intermedi del triennio in esame, categoria nella quale rientrano tuttavia anche le spese destinate ad assicurare servizi ai cittadini, non necessariamente di facile comprimibilità, se non a costo di ridurre i servizi medesimi o la loro qualità. La norma violerebbe pertanto il primo comma dell’art. 119 della Costituzione.

4) Infine, la scelta del legislatore violerebbe il terzo comma dello stesso art. 119, stabilendo per la ripartizione dei tagli un criterio, quello dei consumi intermedi degli enti, del tutto differente da quello previsto per la ripartizione del fondo perequativo, consistente nella minore capacità contributiva media dei residenti nell’ente.

Le questioni di legittimità costituzionale sono state ritenute fondate dalla Corte, la quale ha conseguentemente dichiarato non conforme al dettato costituzionale “la norma contestata nella parte in cui non prevede, nel procedimento di determinazione delle riduzioni del Fondo sperimentale di riequilibrio da applicare a ciascun Comune nell’anno 2013, alcuna forma di coinvolgimento degli enti interessati, né l’indicazione di un termine per l’adozione del decreto di natura non regolamentare del Ministero dell’interno”.

Riguardo al mancato coinvolgimento preventivo degli enti oggetto dei tagli la Corte ha riconosciuto la validità del previgente meccanismo, in base al quale “lo Stato determina l’ammontare complessivo della riduzione per anno di riferimento e per tipologia di ente, mentre la quota assegnata a ciascun ente è stabilita dalla Conferenza Stato-Città e autonomie locali (nel caso dei Comuni e delle Province) e recepita con decreto del Ministero dell’interno entro una data certa. Solo in assenza di un accordo, il Ministero può procedere unilateralmente alla quantificazione delle riduzioni, adottando un decreto ministeriale, sempre entro una data certa, ‘in proporzione alle spese sostenute per consumi intermedi desunte […] dal SIOPE'”. Il coinvolgimento preventivo degli enti interessati risulta tanto più necessario se il criterio posto alla base del riparto dei sacrifici non è esente da elementi di dubbia razionalità, come risulta quello delle spese sostenute per i consumi intermedi.

La Corte riconosce al riguardo non destituita di fondamento la considerazione, sviluppata dal Tar del Lazio, che “nella nozione di ‘consumi intermedi’ possono rientrare non solo le spese di funzionamento dell’apparato amministrativo – ciò che permetterebbe al criterio utilizzato di colpire le inefficienze dell’amministrazione e di innescare virtuosi comportamenti di risparmio -, ma, altresì, le spese sostenute per l’erogazione di servizi ai cittadini. Si tratta, dunque, di un criterio che si presta a far gravare i sacrifici economici in misura maggiore sulle amministrazioni che erogano più servizi, a prescindere dalla loro virtuosità nell’impiego delle risorse finanziarie”.

Si tratta di un tema rilevante, possibile fonte di discriminazioni non giustificate. Alcuni esempi sul solo caso degli asili:

1) Un comune che, in proporzione agli abitanti, gestisce molti asili comunali è penalizzato rispetto a un comune che ne gestisce pochi o nessuno.

2) Gli asili comunali (i loro acquisti intermedi come i pasti e il riscaldamento) sono penalizzati dalla norma, gli asili statali, che svolgono identiche funzioni, invece no.

3) I comuni che producono “in house” i pasti avrebbero dovuto ridurre la spesa per l’acquisto dei soli beni alimentari, ma non la remunerazione dei cuochi, invece i comuni che hanno esternalizzato la produzione dei pasti avrebbero dovuto contenere il costo complessivo, compreso il costo del personale esterno. Questo caso comprende anche chi ha esternalizzato la produzione dei pasti a una propria azienda controllata, come il comune di Milano con l’azienda Milano Ristorazione.

4) È possibile comprimere la spesa per l’acquisto dei pasti degli asili senza comprimere la loro qualità? Difficile immaginarlo, e in ogni caso difficile farlo in presenza di contratti pluriennali in essere.

Come sostenuto dalla Corte, la norma penalizzava gli enti che producono più servizi e questo è particolarmente evidente nel caso del comune di Milano, non solo in quanto erogante ai suoi cittadini servizi in misura notevolmente superiore alla media nazionale, ma soprattutto per una peculiarità che riguarda il trasporto urbano: il comune ha con Atm un contratto del tipo “gross cost”. Questo significa che il comune paga Atm per l’intero costo dei servizi di trasporto da essa svolti e incamera nel suo bilancio tutti i proventi di biglietti e abbonamenti. A differenza di altre città, essi non vanno al bilancio delle aziende di trasporto, ma a quello del Comune. Nello stesso tempo le altre città, quelle che hanno contratti di tipo “net cost” con le aziende di trasporto, vedono nei bilanci dei loro comuni meno uscite per il Tpl in quanto versano all’azienda di trasporto solo la differenza tra il costo di prestazione del servizio e i proventi di biglietti e abbonamenti. Pertanto sono state molte meno penalizzate dalla norma rispetto a Milano, città che non è però quella che ha presentato ricorso contro il provvedimento (è stata invece la città di Lecce, alla quale va tutta la nostra ammirazione).

Per la Corte, dati gli elementi di ambiguità connessi al criterio di ripartizione adottato, “si deve ritenere che il ricorso al criterio delle spese sostenute per i consumi intermedi come parametro per la quantificazione delle riduzioni delle risorse da imputare a ciascun Comune possa trovare giustificazione solo se affiancato a procedure idonee a favorire la collaborazione con gli enti coinvolti e a correggerne eventuali effetti irragionevoli. Il criterio delle spese sostenute per i consumi intermedi non è dunque illegittimo in sé e per sé; la sua illegittimità deriva dall’essere parametro utilizzato in via principale anziché in via sussidiaria, vale a dire solo dopo infruttuosi tentativi di coinvolgimento degli enti interessati attraverso procedure concertate o in ambiti che consentano la realizzazione di altre forme di cooperazione”.

Sin qui il provvedimento della Corte e le sue motivazioni. Da qui in avanti tuttavia un dubbio di rilevante portata: siamo proprio sicuri che i fattori di incostituzionalità si limitino alla norma in oggetto? Siamo certi che non possano estendersi ad altre norme con le quali sono stati realizzati nell’ultimo quinquennio consistenti tagli agli enti locali?

Perché se è vero che gli enti locali debbono cooperare al raggiungimento degli obiettivi generali di finanza pubblica, anche ai fini del rispetto degli accordi internazionali, è anche vero che tali obiettivi debbono essere equamente ripartiti tra i diversi livelli di governo e che la ripartizione annunciata ex ante, quando si stabiliscono i provvedimenti di finanza pubblica, debba essere anche verificata ex post. Questo non si è invece verificato: con le consistenti manovre di finanza pubblica della seconda metà del 2011, in piena crisi del nostro debito sovrano, il governo nazionale si è impegnato con Bruxelles a conseguire il pareggio dei nostri conti pubblici in un solo biennio, conseguendo una riduzione superiore a tre punti percentuali di Pil del disavanzo della Pa italiana.

A tal fine ha imposto consistenti sacrifici agli altri livelli di governo, enti locali in particolare. Invece il risanamento annunciato è stato realizzato neppure per un terzo di quanto promesso e questo è avvenuto senza ridurre l’onere del risanamento che gravava sui comuni, anzi progressivamente accentuandolo.

Siamo proprio sicuri che quanto avvenuto sia pienamente compatibile con il dettato della nostra Costituzione? A questa domanda dedicheremo la terza puntata della nostra analisi.

 

(2- continua)