A distanza di soli due anni dal decollo della nuova Alitalia a gestione Etihad, vettore mediorientale subentrato ai capitani coraggiosi nazionali, l’ex compagnia di bandiera appare nuovamente in grave crisi, tanto da far ipotizzare rischi nella continuità aziendale in assenza di interventi di ricapitalizzazione e di ripensamento del suo modello di business. Com’è possibile che si sia ritornati dopo due soli esercizi alla stessa situazione del 2013-14, quando si dovette dapprima far intervenire nel capitale Poste Italiane e successivamente ricercare un vettore non europeo come partner? Si tratta in realtà di una crisi molto simile anche a quella del 2007-8, vissuta dall’Alitalia a gestione pubblica, che indusse dapprima il governo di centrosinistra ad avviare la cessione ad Air France e in seguito quello di centrodestra a promuovere, in nome dell’italianità, la cordata degli imprenditori “patriottici”.
Il problema di Alitalia ha in realtà una sola manifestazione e una sola causa. La manifestazione: elevati, crescenti e insostenibili disavanzi che erodono i mezzi propri e richiedono periodicamente nuovo capitale di rischio, che investitori privati motivati dal profitto non sono evidentemente disponibili a mettere mentre soggetti pubblici non possono farlo in quanto vietato dalle norme europee in assenza di prospettive di redditività aziendale. La causa è ancora più semplice: dopo la liberalizzazione dei cieli europei, completata normativamente nel 1997, ma i cui effetti si sono manifestati con intensità solo a partire dalla prima metà del decennio 2000, la crescente concorrenza attuata dai vettori low cost sulle rotte infraeuropee che toccano l’Italia ha portato a una progressiva erosione dei ricavi unitari sui servizi offerti da Alitalia su queste rotte. Poiché Alitalia è un vettore storicamente concentrato sulle rotte di beve raggio, nazionali ed europee, questa tendenza ha portato a una compromissione del conto economico e a una sostanziale insostenibilità dell’azienda nel medio-lungo periodo.
Come ha reagito la gestione aziendale per contrastare questa tendenza? Essenzialmente cercando di contenere i costi, senza tuttavia disporre della possibilità di mutare radicalmente il suo modello di business. Se si dispone di una flotta in cui prevalgono gli aerei di breve raggio è evidente che non si può modificare rapidamente l’offerta ampliando il lungo raggio, nonostante la sua convenienza economica derivante dall’essere un segmento ancora protetto dalle turbolenze economiche dell’intensa concorrenza infracomunitaria. La vecchia Alitalia a gestione pubblica aveva nel 2007 sette aerei passeggeri a breve raggio ogni otto totali; quella dei “capitani coraggiosi” è scesa a sei ogni sette e l’ultimissima in versione Etihad a cinque ogni sei. Troppo poco e troppo lentamente: i soldi persi per effetto della concorrenza low cost dagli aerei a breve raggio non potranno mai essere recuperati con una flotta a lungo raggio così limitata, che oltretutto i “capitani coraggiosi”, nella loro cecità aeronautica, scelsero nel 2009 non di ampliare ma di tagliare anch’essa, pur se meno drasticamente di quella a breve.
In maniera corretta il piano industriale del 2014 di Etihad ha previsto il rilancio del lungo raggio, tuttavia non è riuscito ad avviare il risanamento del conto economico, anzi le perdite dell’ultimo biennio appaiono anche più consistenti rispetto a quelle della precedente gestione. Bisogna tuttavia ricordare, a parziale giustificazione di Etihad, che il rilancio del lungo raggio non poteva che essere graduale, dopo due decenni consecutivi di ridimensionamento, e realizzarsi con l’immissione progressiva di nuovi aeromobili e l’apertura sperimentale di nuove rotte intercontinentali delle quali la redditività doveva essere verificata sul campo e non poteva certo considerarsi garantita ex ante.
Che fare, dunque, di Alitalia ora che siamo ritornati alla casella di partenza di ogni piano di risanamento? Proviamo a mettere in ordine le poche certezze:
1- Alitalia sopravvive nell’immediato se qualcuno è disponibile a mettere i soldi che servono per il proseguimento della sua operatività e che, tuttavia, andranno con certezza anch’essi persi. Possono essere gli azionisti attuali, italiani e arabi, possono essere azionisti nuovi del settore aeronautico se si trovano (si è parlato di Lufthansa), ma è del tutto inopportuno che siano azionisti pubblici data la loro vocazione a realizzare perdite da porre a carico della collettività.
2- Chiunque sia nell’immediato disponibile a reintegrare il capitale perduto nel medio periodo resta tuttavia il problema della sostenibilità dei segmenti di business nei quali l’azienda opera. Il lungo raggio intercontinentale è sicuramente sostenibile, ma esso richiede una flotta limitata nella quale per ogni aereo a lungo raggio ne è sufficiente uno ulteriore di breve raggio che ne garantisca voli nazionali di feederaggio. Stiamo parlando, in questa ipotesi, di una flotta composta solo di una cinquantina di aerei totali nell’immediato e di una sessantina tra alcuni anni. Si tratterebbe di un dimezzamento della flotta attuale e anche, con grande probabilità, di un dimezzamento del personale. Gli esuberi non sarebbero in conseguenza i mille o milleseicento di cui si sta parlando in questi giorni, ma almeno cinquemila.
3- Il breve-medio raggio nazionale ed europeo, ora coperto nel mercato italiano prevalentemente da vettori low cost, non è sostenibile per Alitalia data la sua attuale struttura di costo. Occorre prendere atto di questa realtà e comprendere che non vi possono essere soluzioni differenti dalle due seguenti: a) il segmento viene quasi totalmente dismesso, conservando solo i voli nazionali di feederaggio degli intercontinentali, e l’azienda attuale dimezzata, come sostenuto al punto precedente; b) in alternativa Alitalia deve essere in grado di trasformarsi molto rapidamente, per il suo segmento nazionale ed europeo, in un vettore low cost paragonabile a EasyJet e Vueling. In tale ipotesi che, nonostante figuri a bassissima probabilità di realizzazione azienda e governo dovrebbero comunque provare a verificare, potrebbe non rivelarsi necessario nel medio periodo alcun ridimensionamento aziendale e dell’occupazione, ma anzi risultare persino possibile più avanti nel tempo una crescita dimensionale conseguente alla riuscita della trasformazione.
L’analisi precedente può apparire drastica, ma essa trova giustificazione nella tabella che vedete a fondo pagina che riporta una nostra analisi dei ricavi di Alitalia nell’esercizio 2015, realizzata a partire dai dati di bilancio e industriali riportati nella Relazione annuale del vettore. Essa riporta per ogni area di offerta (voli nazionali, di medio raggio e di lungo raggio): 1) i livelli di produzione realizzati, consistenti nei passeggeri trasportati per ogni segmento e nelle loro percorrenze totali; 2) i ricavi totali realizzati; 3) i ricavi unitari, intesi sia come proventi medi per passeggero trasportato che per km da esso percorso. I ricavi totali sono inoltre ricalcolati assumendo un’ipotesi alternativa per i loro valori unitari: la loro invarianza rispetto ai livelli inclusi nel piano Fenice del 2008 che fu alla base del piano industriale che ha guidato il vettore durante gli anni della gestione Cai. Stiamo in sostanza cercando di stimare cosa sarebbe successo se quei proventi unitari fossero rimasti invariati, senza aumentare per effetto dell’inflazione, né diminuire per effetto della concorrenza.
L’esercizio intende rispondere alle due domande seguenti: (1) quanti ricavi avrebbe avuto in più Alitalia nel 2015, per ognuno dei tre segmenti di offerta, se l’accresciuta concorrenza non avesse ridotto i proventi unitari? (2) I maggiori ricavi sarebbero stati sufficienti a garantire l’equilibrio economico del vettore a parità di costi di produzione? Iniziamo a rispondere alla prima domanda, analizzando ogni singolo segmento di offerta.
Voli nazionali. Nel 2015 Alitalia ha trasportato 11,2 milioni di passeggeri su rotte domestiche e incassato 750 milioni, realizzando un provento medio pari a 63 euro per passeggero; nel Piano Fenice, costruito a partire dai dati effettivi di allora, il provento medio era tuttavia previsto a 106 euro per passeggero, valore che se fosse rimasto invariato avrebbe consentito ad Alitalia ricavi complessivi sul segmento nel 2015 pari a un miliardo e 261 milioni. I minori ricavi 2015 imputabili principalmente all’accresciuta concorrenza sul segmento, sia aeronautica che ferroviaria, sono pertanto pari a 511 milioni e il provento medio risulta inferiore del 41% al rispetto a quello previsto dal Piano Fenice. Non dimentichiamo che all’epoca del Piano Fenice la rete ferroviaria ad alta velocità non era stata ancora completata, lo sarà infatti solo a fine 2009, e la concorrenza su di essa arriverà solo nel corso del 2012 col treno Italo di Nuovo Trasporto Viaggiatori. Inoltre, all’epoca la penetrazione dei vettori low cost sulle rotte domestiche era limitata, non arrivando al 16%, mentre ora supera abbondantemente il 50%: nel 2015 a fronte degli 11,9 milioni di passeggeri Alitalia su voli nazionali ve ne sono stati infatti 10,2 per Ryanair, 2,7 per EasyJet e altri 2 milioni complessivamente per i due vettori low cost spagnoli Vueling e Volotea. Il totale dei low cost arriva pertanto a sfiorare i 15 milioni.
Voli a medio raggio. Nel 2015 Alitalia ha trasportato su rotte verso il resto d’Europa, il Medio Oriente e l’Africa mediterranea 7,9 milioni di passeggeri totali e incassato anche qui 750 milioni, realizzando un provento medio pari a 95 euro per passeggero; nel Piano Fenice il provento medio era tuttavia previsto a 118 euro, valore che se fosse rimasto invariato avrebbe consentito ad Alitalia nel 2015 ricavi complessivi sul segmento pari a 932 milioni. I minori ricavi ammontano pertanto a 182 milioni che sommati ai 511 milioni di minori ricavi sulle rotte domestiche portano il totale dei minori ricavi sul breve e medio raggio a sfiorare i 700 milioni. Su questo segmento il ricavo medio effettivo è limitato a un -20% rispetto al livello indicato dal Piano Fenice in quanto vi era già all’epoca, a differenza dei voli domestici, un’estesa concorrenza dei vettori low cost che avevano già superato sulle rotte europee dall’Italia una quota di mercato superiore al 40%. La pressione concorrenziale alla riduzione dei prezzi medi che si è manifestata posteriormente appare pertanto ragionevolmente inferiore a quella che si è realizzata sulle rotte nazionali.
Voli a lungo raggio. Nel 2015 Alitalia ha trasportato su rotte intercontinentali a lungo raggio 2,3 milioni di passeggeri totali e incassato sul segmento poco più di un miliardo di euro, realizzando un provento medio pari a circa 450 euro a passeggero. Si tratta praticamente dello stesso valore unitario indicato nel Piano Fenice del 2008, che era di 455 euro. Non si hanno pertanto in questo segmento minori ricavi rispetto ai livelli di prezzo incorporati in quel piano. Si tratta, come noto, di un segmento nel quale i vettori low cost non operano o almeno non operano ancora in maniera significativa.
Possiamo a questo punto trarre qualche conclusione:
1- Alitalia a gestione Etihad è andata particolarmente male principalmente per gli effetti della concorrenza che hanno portato a una caduta consistente e in gran parte imprevista dei ricavi medi unitari.
2- Tali effetti si sono manifestati con particolare intensità sul segmento domestico a causa dell’accentuarsi della concorrenza dei vettori low cost alla quale si è aggiunto l’effetto della concorrenza del trasporto ferroviario, generato dall’apertura effettiva anche di quel mercato.
3- Alitalia non è riuscita ad abbattere i costi unitari in maniera altrettanto rapida della riduzione dei ricavi unitari ed è andata in conseguenza incontro a disavanzi rilevanti, persino maggiori rispetto alla precedente gestione, integralmente imputabili al risultato economico dell’offerta sui voli domestici ed europei.
4- Alitalia non è in grado, sotto nessuna gestione, di evitare tali perdite se non trasformandosi anch’essa in vettore low cost in relazione ai segmenti domestico ed europeo oppure scegliendo di chiudere quasi integralmente tali segmenti, con la sola eccezione dei voli domestici necessari per il feederaggio dell’offerta intercontinentale.