Il trasporto aereo commerciale non è mai andato così bene in tutto il mondo come nell’ultimo biennio. Le compagnie aeree hanno realizzato complessivamente nel 2015 più di 33 miliardi di euro di profitti, trainati da un lato dal calo delle quotazioni del petrolio e dall’altro dalla crescita della domanda di trasporto che ha permesso valori di load factor, la percentuale di posti venduti su quelli disponibili, a livelli record. I profitti dell’anno 2016 che si è da poco chiuso sono stimati sugli stessi livelli dell’anno precedente.



Questi dati molto positivi, riferiti allo scenario mondiale, trovano conferma se si restringe l’analisi al Vecchio continente. In Europa le dinamiche favorevoli hanno infatti interessato tanto le maggiori compagnie low cost quanto le vecchie compagnie di bandiera, messe in difficoltà nell’ultimo decennio sulle rotte comunitarie proprio dalla concorrenza delle prime. Nel 2015 i vettori tradizionali che aderiscono all’Aea, l’Association of European Airlines, hanno incrementato l’offerta di oltre il 4% e hanno trasportato quasi 12 milioni di passeggeri in più, vendendo nell’anno l’81% dei posti a bordo disponibili. Nel 2016 (i dati non sono ancora definitivi) vi è stato un incremento ulteriore tanto dell’offerta quanto della domanda, anche se maggiore per la prima, e altri 10 milioni di passeggeri aggiuntivi dovrebbero essere saliti a bordo nell’intero anno. Le rotte con la crescita maggiore sono quelle verso il Nord America, storicamente le più remunerative: qui l’incremento su base annua sfiora il 7%, con un tasso di occupazione dei posti superiore all’83%. Ancora meglio hanno fatto, come prevedibile, i principali vettori low cost: Ryanair, la maggior compagnia per numero di passeggeri sui cieli europei, ha imbarcato 82 milioni di passeggeri nel 2014, 92 nel 2015 e 116 nel 2016; Easyjet, il secondo vettore, 65 milioni nel 2014, 70 nel 2015 e quasi 75 nel 2016.



Se restringiamo ulteriormente l’analisi e ci occupiamo dell’Italia possiamo osservare come l’ultimo triennio sia stato anche qui molto favorevole per il mercato, in particolare per il traffico internazionale. Abbiamo infatti avuto su voli internazionali 92 milioni di passeggeri nel 2014, 98 milioni nel 2015 e 104 milioni nel 2016, con un incremento medio annuo superiore al 6%. Per i soli voli intracomunitari, l’incremento è stato ancora più elevato, avvicinandosi all’8% medio annuo. A tali dati bisogna poi aggiungere il segmento nazionale, corrispondente ad altri 30 milioni annui di passeggeri, ma in questo caso l’incremento annuo è molto più contenuto, circa il 2% in media nel triennio, a causa della concorrenza modale esercitata dal trasporto ferroviario ad alta velocità.



Com’è dunque possibile che in questo contesto di mercato così favorevole Alitalia sia andata e stia andando così male, come è possibile che perda tutti questi soldi? Se ci mettiamo nei panni di un cittadino attento e curioso, che si informa e legge i giornali perché vuole capire gli avvenimenti, alla domanda proprio non riusciamo a rispondere. La teoria più probabile è che l’azienda sia stata male amministrata. In fondo è proprio ciò che ha detto nelle scorse settimane il ministro dello Sviluppo economico Calenda. Tuttavia non è detto che questa risposta sia altrettanto valida per la gestione attuale rispetto alle precedenti. 

Che Alitalia a gestione pubblica andasse male non stupiva, dati gli impedimenti a una gestione efficiente provenienti tanto dallo strapotere dei sindacati quanto dai condizionamenti della politica. Dopo il 2008, con la gestione degli azionisti privati italiani riuniti nella Cai, queste due spiegazioni sono tuttavia venute meno: il ridimensionamento dell’azienda e la sua gestione privata hanno ridotto considerevolmente l’influenza sindacale e cancellato le distorsioni provenienti dalla politica. Eppure Alitalia ha continuato a perdere considerevolmente e, per la prima volta nella sua storia, soldi degli azionisti anziché dei contribuenti. La nuova spiegazione che è stata data riguardava l’assenza di competenze industriali nel settore aeronautico degli azionisti Cai. Si sentiva la mancanza di un partner industriale, di un grande operatore del settore, che tuttavia è arrivato nel 2014 con Etihad. Eppure il vettore ha continuato a perdere, anzi la gestione più recente ha fatto anche peggio della precedente.

Com’è possibile che anche Etihad abbia sbagliato gestione, facendo perdere soldi ai suoi azionisti arabi? In realtà, vi è una risposta ragionevole, che tuttavia non è stata messa sufficientemente in risalto dai media: la gestione è stata sbagliata in conseguenza dei vincoli gestionali derivanti dalle caratteristiche della flotta che la nuova azienda ha ereditato dalla precedente e che non era possibile modificare in breve tempo.

Giova ricordare ai lettori non esperti del settore che il trasporto aereo commerciale passeggeri viene solitamente svolto utilizzando tre tipologie di velivoli: (1) aerei cosiddetti “regionali”, con capienza sino a un centinaio di posti, utilizzati per coprire tratte di breve raggio secondarie che collegano aeroporti minori e a bassa domanda; (2) aerei “narrow body”, a corridoio singolo, con capienza tra cento e duecento posti per i voli di breve-medio raggio sulle rotte maggiori; (3) aerei “wide body”, a doppio corridoio e con capienza superiore ai 250 posti, per i voli intercontinentali di lungo raggio. Alitalia è sempre stato, storicamente, un vettore di breve raggio e ha sempre avuto una flotta prevalentemente composta da aerei del secondo e del primo gruppo. Gli aerei a lungo raggio non hanno mai superato la doppia dozzina, né quando Alitalia a gestione pubblica aveva una flotta di circa 180 velivoli, né quando, sotto la gestione Cai, era scesa a circa 150, né infine sotto la gestione attuale che utilizza una flotta di poco superiore alle 120 unità. 

Il vincolo alla gestione è evidente: anche se il lungo raggio è l’unico segmento nel quale i vettori tradizionali sono ancora protetti dalla concorrenza dei vettori low cost non si può evidentemente ampliare l’offerta a lungo raggio utilizzando una flotta che è formata prevalentemente da aerei di breve-medio raggio. Questo è stato il limite della gestione Etihad e la causa dell’accentuarsi delle perdite: la flotta di Alitalia vede troppi aerei non profittevoli a causa della concorrenza e dei vantaggi competitivi dei vettori low cost e pochi aerei potenzialmente profittevoli. Che fare dunque? In un precedente articolo abbiamo formulato la seguente alternativa: 

1) Il breve-medio viene quasi totalmente dismesso, conservando solo voli nazionali di feederaggio dell’offerta intercontinentale, e l’azienda attuale all’incirca dimezzata nelle sue dimensioni economiche e lavorative (fatturato e personale); 

2) Alitalia può conservare il breve-medio raggio, nazionale ed europeo, solo a condizione di trasformarsi molto rapidamente per tale segmento in un vettore low cost paragonabile a EasyJet e a Vueling. 

In realtà, più che due soluzioni differenti esse sono due varianti della medesima: preso atto che sul segmento dei voli nazionali ed europei vi è sostenibilità economica solo per un’offerta low cost, come si arriva alla medesima? Nella seconda ipotesi creando un’offerta low cost dentro il gruppo Alitalia, nella prima cedendo il segmento a un vettore low cost già esistente. Questa opzione sembra in realtà già essere stata presa in considerazione dai vertici aziendali, come hanno riferito gli organi di stampa. 

Riguardo invece alla seconda, a quali condizioni potrebbe essere realizzata? Di quanto Alitalia dovrebbe abbassare i suoi costi per divenire un vettore low cost sostenibile sul breve-medio raggio? 

A tale domanda proviamo a rispondere con l’ausilio della tabella sottostante nella quale abbiamo cercato di ricostruire alcuni dati del segmento problematico di Alitalia, il breve-medio raggio, per metterli a confronto con quelli corrispondenti dei tre principali competitori low cost sul mercato: Easyjet, Vueling e Ryanair. 

Il breve medio-raggio di Alitalia è facilmente ricostruibile in base al bilancio d’esercizio sia per quanto riguarda i dati industriali che i ricavi, ma non in relazione ai costi industriali. Vediamo i principali numeri: nel 2015 Alitalia ha trasportato su voli nazionali, europei e verso il Nord Africa e il Medio Oriente 19,8 milioni di passeggeri dai quali ha incassato 1,5 miliardi di euro. Stimando in base a dati storici del vettore un percorso medio per passeggero di 850 chilometri si perviene a una percorrenza totale pari a 16,9 miliardi di km, i cosiddetti passeggeri-km, e applicando a tale valore il load factor sul segmento, dichiarato dal vettore e pari al 75,5%, si perviene a un’offerta complessiva pari a 22,3 miliardi di posti-km. In base alla composizione della flotta a breve-medio raggio si può stimare che per produrre 22,3 miliardi di posti-km sulle rotte considerate siano stati realizzati circa 182 mila voli complessivi. 

Qual è stato il costo di tale offerta? Per stimarlo ipotizziamo, e l’ipotesi è ragionevole, che Alitalia sia complessivamente in pareggio operativo su tutti i segmenti che non stiamo considerando e stia perdendo solo sul segmento in oggetto. Pertanto detraiamo dai costi operativi totali del vettore tutti i ricavi operativi non riconducibili al trasporto passeggeri sul breve-medio raggio. Otteniamo in tal modo un valore di 1,9 miliardi al quale corrisponde una perdita operativa di 420 milioni, che è quella complessiva dell’azienda. 

Se questi dati sono plausibili se ne possono desumere interessanti stime dei costi e dei ricavi unitari:

1) I voli a breve-medio raggio di Alitalia avrebbero generato un costo medio di 10.600 euro e, a fronte di ricavi medi per 8.300 euro, una perdita operativa per volo pari a poco meno di 2.400 euro.

2) In media da ogni passeggero a breve-medio raggio Alitalia ha generato ricavi medi per 76 euro e costi per 97 euro, con un margine negativo prossimo ai 22 euro.

3) Ogni posto-km offerto è costato ad Alitalia 8,6 centesimi di euro, mentre per ogni passeggero-km trasportato ha incassato 8,9 centesimi. Purtroppo tale incasso, dato il load factor, è stato conseguito solo sui tre quarti dei posti offerti. Alitalia avrebbe ottenuto il pareggio operativo sul medio-lungo raggio, a parità di costi e ricavi unitari, solo con un load factor del 97%, ovviamente impossibile da raggiungere.

I numeri precedenti evidenziano come il breve-medio raggio sia insostenibile per Alitalia alle attuali condizioni. Chiediamoci tuttavia quali delle variabili considerate nell’analisi evidenzi valori anomali rispetti ai vettori low cost concorrenti. Può essere che Alitalia applichi ai suoi clienti prezzi troppo elevati? Se si esclude Ryanair, che è un vettore low cost spinto, si direbbe non particolarmente: l’incasso di Alitalia dai passeggeri è stato in media di 8,9 centesimi al km, certo maggiore dei 7,9 di Vueling e degli 8,3 di Easyjet, tuttavia esso è riferito a voli medi più brevi i quali richiedono costi unitari più elevati. Il trasporto aereo costa infatti molto in decollo e atterraggio e poco durante la crociera. Può risultare eccessivo il costo medio per volo effettuato? A guardare i numeri sembrerebbe di no: i 10.600 euro di Alitalia sono addirittura inferiori ai 10.700 euro di Vueling e i 12.000 di Easyjet. In cosa consiste allora il problema? Nel semplice fatto che Alitalia ha costi per volo in linea rispetto ai concorrenti, ma tuttavia li sostiene per far volare aerei mediamente più piccoli e sui quali il tasso di occupazione dei posti è molto più basso. Easyjet e Vueling hanno mediamente a bordo 150 passeggeri paganti, Ryanair addirittura 175. Alitalia non arriva invece ai 110. La differenza con Vueling e Easyjet sta tutta in quei 40 passeggeri in meno per volo e nei ricavi che essi non apportano.

Cosa può fare dunque Alitalia? Per portare più passeggeri a bordo dovrebbe probabilmente praticare tariffe inferiori e non è detto che i ricavi per volo si accrescano. Di certo può mettersi in sicurezza solo abbassando i costi medi per volo. Se incassa 8.300 euro per volo non può sostenere costi superiori, prudenzialmente, a 8.000 euro per volo, valore che è inferiore persino al costo medio per volo di Ryanair. A quanto ammontano i costi totali che occorre tagliare sul breve-medio raggio per divenire vettore low cost su tale segmento? Il calcolo è semplice: da 10.600 euro effettivi agli 8.000 auspicati la riduzione per volo è di 2.600 euro. Essa va poi moltiplicata per 182 mila voli annui, per un valore totale di 470 milioni di euro, quasi il triplo dei 160 milioni di risparmi indicati dai media quale obiettivo della ristrutturazione alla quale starebbe lavorando l’attuale gestione.

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