Il numero di posti di lavoro creati dall’economia americana ad agosto è stato inferiore alle attese; i dati hanno confermato il rallentamento del mercato del lavoro e le probabilità di un taglio di 50 punti base a settembre sono salite. Gli investitori oggi scommettono che la Fed taglierà i tassi dell’1% entro la fine dell’anno. Ieri a valle dei dati di agosto sia il presidente della Fed di New York, Williams, che Christopher Waller, membro del board della Fed, hanno confermato l’avvio di un processo di taglio dei tassi. L’inflazione sta tornando al 2% e il mercato del lavoro mostra segnali di rallentamento; la Fed quindi può concentrarsi sulla prima parte del suo mandato senza timori sui prezzi.
I mercati azionari americani hanno chiuso ieri la peggiore settimana del 2024. Evidentemente gli investitori temono che la politica monetaria possa non essere sufficientemente espansiva per controbilanciare il rallentamento economico; per sostenere le quotazioni occorre una ragionevole certezza o l’evidenza sulla volontà della Fed di procedere spedita con i tagli. Questa urgenza non sembra in realtà emergere dai dati sull’economia americana. Il tasso di disoccupazione è ai minimi, il Pil è in crescita e nonostante alcuni settori abbiamo mostrato segnali di rallentamento o crisi, altri ne sono immuni.
I timori degli investitori, visibili per esempio nei cali dei rendimenti delle obbligazioni di Stato americane, si alimentano di altre ragioni. Questa inversione del ciclo economico è diversa da quelle viste negli ultimi tre decenni, perché arriva dopo una fase di inflazione che non si vedeva dagli anni 80. Le altre crisi o le altre fasi di rallentamento non sono un buon metro di paragone. Il timore è che i rialzi dei prezzi degli ultimi due anni possano trovare un’economia più vulnerabile a un indebolimento del mercato del lavoro. La vita costa molto di più e i consumi potrebbero quindi diminuire di più e prima se il tasso di disoccupazione comincia a salire.
Alcune categorie di lavoratori sembrano particolarmente fragili. I mercati azionari ai massimi aiutano i consumi di chi ha investito in borsa, ma contano poco per chi non ha risparmi. I lavoratori più giovani, all’inizio della carriera lavorativa, sostengono i consumi con i redditi da lavoro e poco altro, in compenso pagano i prezzi di tutti. I mercati azionari in continua crescita hanno contribuito ad alimentare un’economia che si è espansa di più e più a lungo di quanto chiunque ritenesse possibile. Ciò significa che un cambio di paradigma rischia di trasformare un “ciclo virtuoso” in un circolo vizioso in cui redditi e risparmi, sotto forma di investimenti azionari, smettono di contribuire al ciclo economico.
L’equilibrio degli ultimi anni ha funzionato, in qualche modo e con qualche ombra, ma è fragile sia per l’esplosione dei prezzi che ha generato, sia perché gli Stati, che l’hanno alimentato con politiche fiscali espansive, sono sotto pressione. Tirare conclusioni univoche è difficile perché, per esempio, nessuno può escludere che gli investitori non accettino un altro ciclo di espansione fiscale. Il cuore della questione è l’incertezza che quanto accaduto negli ultimi tre anni, in termini di prezzi e deficit, proietta su un prossimo ciclo di rallentamento. È difficile pensare che i mercati possano riacquistare fiducia prima di sapere di che rallentamento si tratta e quale sia il mix di risposte fiscali e monetarie. Le prossime presidenziali americane, da questo punto di vista, sono un elemento chiave. Mancano solo due mesi ma sembrano due anni.
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