Il lavoro scientifico è dominato dall’esperienza della scoperta. Non si tratta solo del momento conclusivo, quando si raggiunge il traguardo di una nuova legge, quando si risolve un problema: tutta la ricerca è un cammino di scoperta, è l’accorgersi di nuovi aspetti della realtà o la possibilità di guardare aspetti già noti in modo nuovo.
Il caso più significativo nell’attualità scientifica è la scoperta dei pianeti extrasolari che ha giustamente meritato un premio Nobel, quello della fisica 2019 (o meglio, la metà del premio, condiviso col cosmologo James Peebles) attribuito a Michel Mayor e Didier Queloz, scopritori nel 1995 del primo esopianeta, 51 Pegasi b, orbitante intorno alla stella 51 Pegasi.
Una scoperta che ha aperto la strada a una sequenza impressionante di altre scoperte analoghe, rivelando un volto nuovo dell’Universo: quello appunto della innumerevole varietà dei sistemi solari, che va a sostituire l’immagine di un cosmo popolato da miliardi di galassie formate da miliardi di stelle solitarie. Sono ormai alcune migliaia gli esopianeti accertati e la loro scoperta sembra inarrestabile, mentre si programmano nuove e ambiziose missioni spaziali destinate ad allungare di parecchio la lista dei compagni di 51 Pegasi b.
Se la scoperta è un’esperienza, allora implica un soggetto, un protagonista; e comporta il fatto che può essere raccontata. Il racconto permetterà di cogliere come quasi sempre la scoperta sia il risultato di una intelligente e fortunata combinazione di intuizioni geniali, audaci elaborazioni teoriche, ingegnose soluzioni tecniche e strumentali.
Spesso la scoperta riguarda oggetti o fenomeni conosciuti e osservati da sempre, ma che le nuove idee e i nuovi strumenti permettono di vedere e spiegare in modo completamente rinnovato.
È quanto accaduto a Galileo osservando la Luna col suo innovativo «occhiale» e scoprendo la sua superficie accidentata e costellata di crateri e montagne.
Ma è quanto hanno sperimentato quasi 400 anni dopo gli astronauti dell’Apollo 11, che quei crateri e avvallamenti li hanno riscoperti toccandoli con mano, giocando con le loro lunghe ombre e lasciando le loro impronte sulla polverosa superficie del nostro satellite.
Come ci ricorda in queste pagine zio Albert, che approfitta dell’anniversario del primo allunaggio per spiegare ai giovani lettori il fenomeno delle fasi lunari e il motivo della visibilità da Terra sempre della stessa faccia della Luna.
Le scoperte possono avvenire in un grande centro di ricerca – terrestre, sotterraneo, sottomarino o spaziale – ma anche in un modesto laboratorio, come quello dove 150 anni fa operava Dmitrij Mendeleev mentre abbozzava i primi schemi di quel Sistema Periodico che diventerà l’alfabeto di base per tutti i chimici ed entrerà anche nel patrimonio della letteratura mondiale grazie a un chimico-scrittore, come raccontano Franco Camisasca e Emanuele Ortoleva.
Analogamente può avvenire nelle aule delle nostre scuole, tradizionali, capovolte o flipped che siano. La proposta delle discipline scientifiche nella scuola può, e dovrebbe, far vivere nella quotidianità un’esperienza di scoperta, in primo luogo agli insegnanti e di conseguenza agli studenti.
Lo mostrano bene gli articoli della sezione SCIENZ@SCUOLA in questo numero, che raccontano esperienze di scoperte nella scuola primaria e secondaria di primo grado; e lo mostrano i lavori e le testimonianze presentate a ScienzAfirenze, che nell’aprile scorso ha raccolto nella capitale toscana duecento tra studenti e insegnanti di venti scuole superiori, provenienti da otto regioni d’Italia.