Al CERN di Ginevra si stanno effettuando gli studi di fattibilità dell’acceleratore del futuro, chiamato appunto Future Circular Collider (FCC): un grande anello con una circonferenza di 90 chilometri, il triplo dell’attuale LHC; sarà lo strumento principale per sondare la Natura a un livello più fondamentale e cercare quindi di rispondere a grandi questioni aperte sulla struttura intima e sull’organizzazione della materia presente nell’Universo. Sarà – come ha osservato recentemente la direttrice generale del CERN, Fabiola Gianotti – come «un poderoso microscopio, sarà lo strumento più straordinario mai ideato per guardare nelle profondità finora irraggiungibili della Natura».
All’altro estremo della scala cosmica, a livello del macrocosmo, le prestazioni complementari dei nuovi telescopi spaziali Webb e Euclid consentono di sondare l’ambiente cosmico a profondità inimmaginabili nello spazio e nel tempo e su vasta scala, sperando di trovare risposte agli interrogativi cruciali circa le origini, l’evoluzione e il futuro dell’Universo.
In entrambi i casi, c’è una tendenza della ricerca più avanzata a spingersi sempre più in profondità: profondità nel tempo e nello spazio, ma soprattutto profondità nello spessore della conoscenza e dei significati. La scoperta della crescente complessità del cosmo, a tutti i livelli, acuisce l’esigenza di nuovi modelli interpretativi, di nuove architetture di pensiero che consentano di non limitarsi alla superficie e offrano delle solide basi anche alle più ardite costruzioni teoriche.
Anche dal versante che confina con gli aspetti più applicativi, quello del super-calcolo e dell’impetuosa avanzata dell’Intelligenza Artificiale (AI), se a prima vista ciò che colpisce è l’estensione delle potenzialità, la vastità dei risultati raggiungibili, quello che poi emerge è, ancora una volta, un’esigenza di profondità, di criteri generali e solidi per gestire strumenti così potenti e pervasivi.
Lo segnala Alberto Strumia, che riflette sugli utilizzi poco consapevoli della AI e sui pericoli comunque presenti, osservando che «i problemi non si risolvono solo limitandosi a tamponare le falle! Il problema della vivibilità di una società, il problema dell’uomo, della rieducazione della coscienza si colloca molto più alla radice». E nello stesso articolo, estendendo le considerazioni all’intero panorama delle scienze contemporanee, rilancia l’invito di San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio, a indagare sui fondamenti logici e ontologici della scienza: «Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento». Strumia osserva che «questa è una necessità per una ricerca scientifica che non voglia finire per bloccarsi, esaurendosi in una sempre più presuntamente “onnipotente” tecnologia, manipolatrice dell’uomo e alla fine, nemica dell’uomo».
Ma non si tratta solo di un dibattito tra epistemologi: la stessa esigenza di non auto-limitarsi a veleggiare in superficie per andare più in profondità (o in vetta) è presente nell’ambito della scuola e dell’educazione. Ne ha parlato il sociologo Luca Ricolfi in una conversazione con la Redazione di Emmeciquadro, discutendo dell’educazione scientifica e del rischio che l’insegnamento delle STEM sia ridotto a semplice addestramento: «Le STEM diventano anche loro […] formative se sono fatte a un livello tale da produrre una organizzazione mentale capace di affrontare qualsiasi sfida. Alla fine il problema è sempre puntare alla vetta, non accontentarsi di un sapere abborracciato. Non ha nemmeno così grande importanza che il proprio ambito sia un po’ ristretto perché, se c’è una padronanza assoluta in un ambito ristretto, quella padronanza poi può essere applicata ad altri ambiti. Se invece si è sciatti e approssimati, anche in un ambito molto ampio, questo fornisce minori capacità di riconversione».
La profondità (o la vetta) passa per forza dai contenuti, dalle discipline, il cui insegnamento non può diluirsi in un metodologismo sorretto dalla convinzione che «l’importante non è conoscere ma “imparare a imparare”. Non è cultura avere una metodologia perché la metodologia deve essere irrorata di contenuti e conoscenze; se è solo metodologia non è assolutamente cultura».
Insomma, si impara a imparare imparando qualcosa; e sarà la curiosità e il gusto del conoscere che stimolerà l’esigenza, e la genialità, di trovare le modalità più adeguate ed efficaci per scoprire le trame nascoste della realtà.
La scommessa della profondità si gioca, nella scuola, non tanto in solenni pronunciamenti teorici quanto nella capacità di impostare il lavoro quotidiano secondo una prospettiva che va alle radici di ogni concetto, di ogni procedimento, di ogni nuova acquisizione. Lo documenta l’esperienza raccontata da Paola Brusati e Alessandra Perna ne IL senso delle operazioni: introduciamo la divisione, dove i bambini sono stati guidati alla «comprensione ragionata» del fatto aritmetico, diventando «consapevoli del processo»; mettendo in campo una modalità di lavoro che ha consentito ai docenti di chiarirsi costantemente «il fondamento e il contenuto delle scelte che di volta in volta si mettevano in atto. Così come ha indicato anche un modo nuovo e significativo di osservare, guardare e “leggere” i lavori dei bambini e le loro riflessioni, identificando i loro passi e comprendendo l’origine dei loro errori».
Mario Gargantini
(Direttore di Emmeciquadro)