Il lungo periodo di scuola durante la pandemia, tra difficoltà, inerzie e qualche sorpresa, ha favorito la scoperta di risorse educative inaspettate e di potenzialità che attendono solo di essere attivate e sviluppate. Bisogna dire che l’enfasi innovativa è prevalentemente concentrata sui nuovi strumenti messi a disposizione dalle tecnologie digitali, da molti utilizzate – con più o meno convinzione – per rendere praticabile la didattica a distanza ma poi diventate presenze rilevanti nei diversi contesti scolastici. Bisogna anche osservare che è proprio su questi strumenti che molti ripongono le speranze di miglioramento della nostra scuola, riversando su di essi aspettative eccessive e mettendo in secondo piano esigenze e condizioni dell’esperienza educativa che possono decidere della validità e dell’efficacia di qualsiasi strumento.
Qualcuno arriva anche a profetizzare la fine della scuola tradizionale e si iniziano a disegnare modelli di organizzazione scolastica e di didattica dove al centro vi sono appunto le risorse digitali con le loro enormi possibilità di superare distanze di spazio e tempo e con la loro ricchezza di informazioni, di immagini, di connessioni.
Parallelamente a questa euforia digitale crescono le voci preoccupate e si moltiplicano le analisi che segnalano limiti, insufficienze e possibili effetti collaterali di un indiscriminato affidamento al potere conoscitivo e costruttivo degli algoritmi, alla fiducia cieca in tutto ciò che si presenta come smart. Non ci riferiamo alle reazioni di quanti sono refrattari a ogni ipotesi di cambiamento e demonizzano il nuovo indicandone solo i difetti. Alcune analisi prendono in esame aspetti cruciali del processo di insegnamento e di apprendimento e portano l’attenzione su ciò che davvero conta nell’esperienza educativa e conoscitiva.
Possiamo citare, per tutte, la riflessione di Derrick de Kerckhove, sociologo, uno dei massimi studiosi del fenomeno della digitalizzazione, considerato l’erede intellettuale di Marshall McLuhan. Intervistato durante il recente Meeting di Rimini, così dichiarava: «Il livello cognitivo e critico si sta abbassando, a causa dell’impatto dei media digitali, su questo non c’è dubbio. I social hanno messo al centro della discussione le emozioni e le opinioni, di più facile consumo, rispetto al pensiero critico, che ormai non viene più sviluppato. Siamo nella più grande crisi epistemologica della storia! Al digitale non interessa né del significato letterario né del senso».
Di fronte a osservazioni come queste, chi ha a cuore l’educazione dei giovani non può restare indifferente. E la reazione, se non vuol essere solo negativa, dovrà consistere nel mettersi al lavoro per assumere le nuove tecnologie come strumenti di una relazione educativa, come contributo alla formazione della dimensione critica, come occasioni di apertura alla realtà. In breve: nuovi strumenti per sostenere l’esperienza di imparare.
A patto che imparare non venga inteso in modo riduttivo, come pura acquisizione di conoscenze e abilità, come accumulo di sapere e saper fare. Si tratta di esplicitare, attraverso la didattica quotidiana, quello che il pedagogista Marcello Tempesta sottolineava in un’intervista a Emmeciquadro (n. 75 giugno 2020) e che abbiamo riproposto come chiave di lettura di questo numero: «Il passaggio dall’apprendimento acquisitivo a quello significativo permette di accedere alla comprensione profonda e alla rielaborazione personale, al conoscere propriamente umano (e non animale o macchinale), caratterizzato da significatività logica e affettivo-esistenziale: ma la piena maturazione dell’apprendimento è nella dimensione critica, come esercizio della facoltà di giudicare e come apertura alla totalità».