Già altre volte, parlando di scienza e di educazione scientifica, abbiamo messo a fuoco i termini realtà ed esperienza. Perché insistere? Le ragioni per continuare ad indicare come fondamentali queste due categorie vengono dal constatare, nel vivo delle nostre scuole e soprattutto nella mentalità diffusa, che il senso della realtà è sempre più nebuloso e confuso e che il concetto di esperienza è più che mai penalizzato da equivoci e riduzioni.
C’è una generale difficoltà a porsi di fronte alla realtà con libertà, con apertura e desiderio di riconoscerla per quello che è, di ascoltarla per quello che dice prima di soffocarla sotto la coltre dei rassicuranti schemi precostituiti o di filtrarne solo quello che ci fa comodo secondo una reazione immediata. Un simile atteggiamento è quanto di più inadatto, in particolare, per generare conoscenza, rende impossibile un serio lavoro scientifico e compromette la possibilità di una educazione scientifica. L’enorme disponibilità di informazioni, notizie, strumenti di comunicazione invece di dare maggiori opportunità di incontrare la realtà, genera troppo spesso un offuscamento del reale, una illusione di aver ampliato lo spazio delle nostre conoscenze mentre la realtà si allontana sempre più dall’orizzonte.
Proprio nell’attuale contesto di crescente frammentazione del sapere, di confusione tra reale e virtuale, di incertezza sull’attendibilità delle informazioni, una solida educazione scientifica è più che mai un’opportunità per aiutare i giovani a puntare tutta l’attenzione e tutta l’energia conoscitiva sulla realtà, sulla struttura e sulla dinamica del mondo naturale così come le scienze gradatamente ce la rivelano. Tutto questo però, prima di rappresentare un bagaglio di conoscenze acquisite, deve diventare esperienza da parte degli studenti: esperienza diretta, personale, consapevole.
Siamo tornati così alla seconda parola: esperienza. Il richiamo all’esperienza non è infrequente oggi; è però applicato per lo più in modo riduttivo e utilizzato per dare una veste di scientificità alle proprie affermazioni. Non basta accumulare dati, fatti, fenomeni per poter dire che si è fatta esperienza; come non basta fare delle attività in laboratorio o sul campo o partecipare a un evento. I fatti, gli eventi, diventano esperienze quando sono oggetto di riflessione, di confronto, di presa di coscienza; quando si intravvede un loro possibile senso e un loro valore all’interno del contesto più generale in cui sono collocati.
La preoccupazione del docente sarà quella di accompagnare, supportare, attivare questo processo di personalizzazione e consapevolezza. Un processo che può essere messo in moto aiutando gli studenti a definire i termini impiegati nei ragionamenti (secondo i criteri illustrati nel saggio inedito di Carlo Felice Manara). Ma che non è estraneo neppure alla fantascienza, almeno a quella “scientifica” come l’ha praticata Isaac Asimov.
La preoccupazione sopra indicata è ben esemplifica da Maria Gregori presentando il percorso di chimica in una secondaria di primo grado, che coinvolto con entusiasmo i ragazzi al punto da indurne alcuni a fondare un club di chimica.
Come pure da Paola Balzarotti descrivendo il percorso di fisica svolto nel primo biennio del liceo scientifico: «Un’esperienza conoscitiva è innanzitutto un’esperienza profondamente umana che coinvolge la persona intera dello scienziato e che quindi chiede anche a noi e ai nostri studenti di metterci in gioco con tutta la ragione, con tutte le risorse che abbiamo (…) Perciò la vera questione è come educhiamo i nostri alunni a lasciarsi interrogare da ciò che hanno di fronte per iniziare a comprenderlo. Occorre che la conoscenza sia un’esperienza, abbia cioè pertinenza con la persona. Questo mi pare che accada quando viene favorita negli alunni la percezione che quel particolare è in rapporto con la totalità».

 

Mario Gargantini

(Direttore di Emmeciquadro)

 

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