Alla mia destra un attempato dirigente; a sinistra un giovane allenatore, della stessa società, con il figlio di tre anni sulle ginocchia. Sul maxischermo due commercialisti si rimpallano complesse e imprecise informazioni sulla riforma dello sport. La sala rumoreggia inquieta.
“Speriamo sia la volta buona – mormora l’allenatore a commento del nuovo inquadramento dei lavoratori dello sport – non si può fare i precari a vita”. “Ancora tasse e adempimenti! – sbotta il dirigente -. Ma cosa ci danno in cambio? Qui chiudiamo tutti”.
Due posizioni perfettamente ragionevoli, ma apparentemente incamminate verso uno scontro frontale. Quando invece, nella vita di una società sportiva di base, non c’è nulla di più lontano di un conflitto tra “padrone” e “dipendente”.
I dirigenti – quasi sempre volontari – dedicano infinite ore del loro tempo libero tra tesseramenti, palloni, tasse gara, sistemazione spogliatoi, ricerca sponsor, sempre a contatto di gomito con gli allenatori che seguono i gruppi, parlano con i genitori, organizzano le trasferte, incontrano gli arbitri. Si lavora insieme, si fatica, si gioisce, si vince, si perde, si sbaglia, si impara, sempre insieme.
Ciò non toglie che una società sportiva oggi si configuri – si deve configurare! – come un’azienda. Da decenni ormai non c’è spazio per le improvvisazioni: gli utenti – amatori/genitori, bambini/ragazzi – sono esigenti, sulla qualità delle strutture come delle attività. La professionalità è una condizione indispensabile in una Società sportiva moderna. Una riforma dello sport di base, che normasse la vita delle società sportive, da tempo era sentita necessaria, indispensabile. Ma questo comporta inevitabilmente che esplodano dei conflitti al loro interno? Oppure è possibile una soluzione che componga le varie esigenze?
Per essere reale e duratura, non costellata da infiniti e logoranti compromessi, una soluzione deve avere le caratteristiche della sintesi. Deve cioè scaturire da un punto di vista superiore: un’identità comune in cui le parti si riconoscano, in grado così di abbracciare a monte le esigenze diverse.
Tanto Made in Italy vive e prospera in questo modo: la passione per l’aceto balsamico è orgoglio per i lavoratori di Modena, come i filati per quelli di Prato o le selle da bicicletta per i trevigiani. L’azienda è plasmata su una comune mission che ne determina l’organizzazione fin nei dettagli; il lavoro è inquadrato secondo le normative di quel settore produttivo; analogamente gli aspetti fiscali; e così via.
È possibile in quest’ottica individuare anche per le società sportive identità e mission comuni al dirigente volontario, all’allenatore professionale, alla segretaria, al custode del materiale, al fundraiser, al direttore sportivo, al manutentore degli impianti, e via via a tutte le figure part e full time che si sono sviluppate negli ultimi decenni? La storia ci offre un buon aiuto in questa ricerca.
All’ombra del campanile, a fianco della Casa del popolo o a opera del Circolo liberale della città, nel dopoguerra, caduto il giogo imposto del fascismo a tutto l’associazionismo, è sorto uno sterminato numero di società sportive, diverse per impostazione e attività, ma tutte frutto di una libera iniziativa popolare. Che, di fronte al vuoto lasciato da una scuola fortemente segnata dall’intellettualismo, si è spontaneamente caricata del compito di educare i giovani attraverso lo sport.
Una passione, quella sportiva, segno di una tensione innata al Bello, semplice ma per nulla banale, capace di travalicare i limiti di classe, censo, religione, politica. Non è un caso, e nemmeno un fatto di folklore, che il culmine del sentimento di italianità venga percepito quando l’Inno di Mameli echeggia in una grande manifestazione sportiva: lì si riconosce un’appartenenza altrove meno evidente, lo sport riesce a far alzare lo sguardo.
A questo ideale migliaia di persone hanno dedicato tempo, energia, denaro. Non è per nulla esagerato identificare in questo esercito spontaneo la più grande agenzia educativa italiana dopo la scuola. Con la tutt’altro che trascurabile caratteristica di essere totalmente libera, sia da parte di chi ha messo in piedi una società, sia di chi la sceglie. Un fenomeno di pluralismo educativo più unico che raro nel nostro Paese.
E anche una peculiarità tutta italiana: in Europa, e men che meno nei Paesi anglosassoni, lo sport non è frutto dell’iniziativa del popolo, non esiste un tessuto diffuso, capillare, tanto esile quanto tenace, che riesce a produrre qualcosa come 170mila opere – oltre il 30% dell’intero Terzo settore – e consente ad oltre 14 milioni di persone di svolgere attività sportiva.
Coraggio, ci vuole coraggio per avviare un cambiamento di così ampio respiro. Il momento è buono perché la riforma dello sport è sul tavolo. Coraggio prima di tutto da parte delle società sportive nei confronti di se stesse, per accettare il ruolo di colonna portante del sistema educativo. E rifiutarsi d’ora in poi di essere considerate alla stregua di parcheggio per giovani, banale alternativa al cellulare o alla strada; ovvero ambiente di sfogo per adulti stressati. È sulla persona nella sua interezza che incide – e profondamente! – lo sport.
Coraggio dal mondo della cultura, di rilevare il peso che lo sport ha assunto in ambito educativo – come detto -, ma anche sociale, sanitario, economico. È difficile per la tradizione italiana, grandiosamente umanistica. Ma l’orizzonte va aperto all’evidenza della realtà, le mura della cultura vanno allargate, senza togliere anzi per arricchire e rinnovare l’esistente.
Serve coraggio – davvero grande – dalla politica. Perché riconoscere nell’educazione l’identità primaria della società sportiva costituisce un salto di qualità con conseguenze che vanno oltre lo specifico.
Nessuno si sognerebbe oggi di proporre uno sport gestito dal ministero del Turismo e dello Spettacolo, come avvenuto per decenni nel dopoguerra. Ma l’ambiguità della collocazione dello sport non è ancora risolta; a causa da una parte della consolidata mentalità che considera quella del corpo una sottocultura; dall’altra dalla difficoltà di recepire le spinte – ormai ineludibili – della società e ripensare il sistema educativo in forma agile ed integrata: una nuova sintesi – come detto – in grado di ricostituire unità da un punto di vista più alto.
Viceversa, senza coraggio la riforma non riuscirà a decollare, gli aggiustamenti e i compromessi prevarranno, la confusione aumenterà; e inevitabilmente gli oneri, a cascata, ricadranno sulle famiglie. Non è un buon auspicio.
Va invece posta la prima pietra nel posto giusto, ben sapendo che i problemi non si risolveranno miracolosamente, ma si sarà avviato un processo serio e lungimirante. Che, in itinere, potrà realisticamente prevedere soluzioni temporanee e compromessi, ma all’interno di un orizzonte chiaro, con ideali e mission condivisi. Una proposta simile troverebbe più consensi di quanto non si creda. Comunque vale la pena rischiare.
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