Telemaco è dentro per spaccio; anche Ulisse, d’altronde, e buona parte dei Proci.
La maga Circe, laureata, colta, ha in carnet una lunga serie di reati finanziari.
C’è chi ha sulle spalle un ergastolo per omicidio e chi, come Penelope, ha truffato le vecchiette.
Antinoo, il capo dei Proci, è uno di rispetto; è bravo, ha imparato tra i primi la parte a memoria, e se la gode un sacco a impersonare un prepotente.
Siamo in carcere – in Sicilia, a Catania – e siamo sul palcoscenico. Da numerosi anni, infatti, un gruppetto di “ospiti” della Casa Circondariale (cambiano ogni volta, o quasi) si coinvolge in un laboratorio teatrale che porta in scena testi di diverso impatto, alcuni ardui, altri più leggeri: I miserabili e Barabba, La giara e San Giovanni decollato, tanto per intendersi. Quest’anno il passo è stato coraggioso: l’Odissea, si sarà capito.
Non è solo roba di regista e di attori, ma l’esito di un grande lavoro solidale, che mette insieme istituzione, detenuti e volontari. Le musiche, ad esempio, le ha scelte un volontario che ne capisce. Il laboratorio di falegnameria ha forgiato le armi, incluso il famoso arco di Ulisse; il laboratorio di taglio e cucito – reparto femminile – prepara gli abiti di scena, la Mof (Manutenzione ordinaria fabbricati, curata da detenuti lavoratori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria) si è messa sotto per montare palco e sipario. Alle scenografie pensa uno degli attori che ha particolare vena creativa: con pennarelli, cartone, taglierino e sparachiodi ha realizzato alberi, cespugli e i giganteschi oggetti della caverna di Polifemo.
Ma tutto questo gran lavoro non servirebbe a nulla, anzi, neanche ci sarebbe, se i primi a crederci non fossero Direzione e Polizia penitenziaria, che dispiegano ogni energia perché il laboratorio vada avanti e lo spettacolo ci sia. Il perché di questo grande impegno non è difficile da capire.
Sul valore redentivo del teatro in carcere hanno scritto in tanti, e ci sono esperienze – in questo ambito – che si sono guadagnate stima diffusa e riconoscimenti prestigiosi: la Compagnia della Fortezza, a Volterra, le Compagnie del Teatro Libero di Rebibbia: l’Odissea catanese – bisogna ammetterlo – non è a questo livello, non ancora, per lo meno; ma ciò nulla toglie al valore umano ed educativo della vicenda.
Che se è vero che l’educazione è il cammino verso la scoperta non solo delle cose ma del senso che esse hanno, è altrettanto vero che questo cammino può cominciare – per tutti, ma specialmente per queste vite per tanti versi “sbagliate” e indurite – solo per una passione che muove e commuove, e una passione si muove solo per una bellezza incontrata.
L’ultima replica dello spettacolo, quella che i detenuti realizzano di fronte ai loro familiari, lo dice con evidenza.
Per motivi di sicurezza, siamo nella sala colloqui: niente palcoscenico, niente sipario, scenografia ridotta all’osso. Ed anche la recitazione ogni tanto si inceppa: esibirsi di fronte agli occhi sgranati di madri, mariti, compagne, figli fa tremare la voce, anche a quel gradasso di Antinoo.
Alla fine, più degli applausi, restano nella mente alcune parole.
Le prime sono quelle di chi ha dato voce a Polifemo: “Professore, e ora? Che facciamo? Sa, noi le prove del venerdì le aspettiamo tutta la settimana”.
Le seconde sono quelle di Telemaco, che spera di uscire a marzo: “Quando sono fuori, come faccio a continuare? Me lo presentate qualcuno che mi fa fare ancora teatro?”
Le ultime sono quelle della mamma di un attore, il più giovane del gruppo, all’indomani dello spettacolo. È una donna semplice ed una brava mamma, che si strugge per quel suo figlio che è dietro le sbarre e che “dentro è buono, ne sono sicura”. Quello che dice farebbe felice qualunque insegnante. “Sa, professore? Ieri sera, tornati a casa dopo lo spettacolo, con mio marito ci siamo messi al computer e siamo andati a cercare l’Odissea. Che cosa bella!”. Si ferma un po’, sovrappensiero, poi aggiunge: “Continuate, per favore. Le cose belle fanno nascere cose belle”.