Che l’istruzione sia un motore indispensabile per lo sviluppo economico è ormai una verità elementare: Mario Draghi l’ha ricordato ancora una volta, con assoluta chiarezza. Ma per noi in Italia è una verità opaca, che non riesce a diventare senso comune, a imporsi nell’opinione collettiva e nemmeno a determinare la qualità delle politiche pubbliche in questo settore, che versano da tempo in una condizione insoddisfacente e precaria: poche risorse, poca strategia, pesanti condizionamenti corporativi. La cultura di governo di cui disponiamo non ha mai permesso all’evidenza di questo rapporto – non c’è crescita senza sapere – di imporsi con la forza necessaria, di tradursi in scelte conseguenti. Le ragioni di un simile deficit sono complesse, in parte anche legate alla composizione e allo stile di pensiero della nostra rappresentanza politica, tanto a destra come a sinistra: un pezzo di quell’“ideologia italiana” che fa ormai corpo con la nostra stessa storia.

L’Università in particolare è in una situazione difficile. Le pesa addosso l’immagine (lasciamo stare quanto infondata) che la vorrebbe come un luogo di clientele e di sprechi – un mondo autoreferenziale e impenetrabile, dove tutto è possibile e tagliare è sempre giustificato. La riforma recente ha avviato al suo interno alcuni processi positivi, che rischiamo però di compromettere per mancanza di risorse e di coraggio innovativo. C’è bisogno, e in tempi brevi, di più autonomia, di più concorrenza e diversificazione fra le sedi, di sistemi di misurazione delle performance più efficaci e incisivi, di combinare in modo più equo l’eguaglianza delle opportunità con l’investimento nella selezione e nella formazione dei talenti. Sono cose note, che diciamo da tempo. Il problema non è ripeterle, ma trovare il consenso e le alleanze indispensabili per realizzarle, e per rendere finalmente visibile a tutti quel che finora è stato oscuro: che senza una formazione superiore adeguata, per noi non c’è futuro. Un Paese è ciò che è in grado di pensare. E questo non è vero solo in un senso strettamente economico e produttivo, ma identitario, di legame sociale, di appartenenza.

Né il rapporto fra sviluppo e conoscenza – fra qualità della vita e potenza dell’intelligenza – riguarda solo la tecnologia. Il nostro paese ha un patrimonio straordinario di memoria culturale, artistica, storica che dobbiamo saper immettere nelle nuove forme della modernità non come un fossile inerte, ma come materia viva, capace di produrre ricchezza, agio, benessere. E questo è impossibile senza costruirvi intorno una rete di ricerche, di studi, di competenze e di professionalità che solo un sistema universitario all’altezza dei tempi è in grado di promuovere. La tecnica, da sola, crea più problemi di quanti non ne possa risolvere. Dobbiamo pensare a un nuovo intreccio fra tradizione umanistica e scienze fisiche.

Per svolgere la sua funzione, l’università italiana deve rimanere un sistema in larga parte pubblico. Ragioni storiche e strutturali rendono questa scelta irrinunciabile. L’idea che l’unico rimedio ai mali attuali sia una massiccia dose di privatizzazione – come si continua da molte parti a ripetere – è irrealistica e sbagliata. Il modello americano non è esportabile nel continente europeo: in Italia, come in Francia o in Germania. Ma ciò non vuol dire che, sfruttando al meglio e allargando ancora, ove occorra, le regole dell’autonomia, non si possano introdurre quei meccanismi di competitività e di differenziazione fra i diversi atenei, e di trasparenza nella loro gestione, la cui necessità è sempre più indiscutibile.

E intanto dobbiamo essere capaci di legare la battaglia per nuove risorse all’impegno per avviare dovunque possibile elementi di autoriforma e di correzione delle distorsioni, attraverso l’adozione di nuovi codici di comportamento collettivi. C’è anche un problema di rigore e di credibilità: bisogna essere in grado di affrontarlo.


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