La cultura di impresa o, più in generale, la cultura del rischio relegata alla fragile condizione di “vaso di coccio”: con questa espressione, d’intonazione manzoniana, il direttore de Il Sole 24 ore Ferruccio De Bortoli pochi mesi or sono aveva proposto al pubblico dibattito un aspetto decisamente significativo della società italiana. Assenza di propensione al rischio che è data da assenza di responsabilità; complice in questo anche il nostro sistema scolastico e formativo, per lo più permeato da diffidenza nei confronti dell’impresa.

Commentando ora i dati forniti dal primo Rapporto nazionale sullo stato dell’educazione in Italia, «uno studio che mette sicuramente in risalto come il principio di sussidiarietà sia un principio fondamentale per diffondere un’educazione responsabile, oltre che a garantire la libertà di insegnamento e di offerta formativa», De Bortoli ritorna sulle origini, educative e formative, di questa carenza culturale. «La struttura dei licei classici e scientifici, nella sua concezione originale, lasciava aperto un sistema di comprensione, o, come diremmo oggi, di navigazione della realtà che consentiva in qualche modo di coniugare il sapere e la responsabilità, e dava così l’esatta dimensione di cosa significhi costruire costantemente nel tempo il proprio bagaglio formativo».

Un’ampiezza di prospettiva che è andata progressivamente spegnendosi, per lasciare spazio ad una cultura della rendita e alla scelta di un posizionamento sociale immobile e privo di rischio. «L’idea della carriera pubblica è un’idea che in qualche modo attecchisce nella preferenza per una carriera priva di rischi, che magari non dà grandi soddisfazione economiche, ma dà grande stabilità. Tale opzione consente di conservare una sorta di welfare familistico italiano, per cui la persona non è stimolata a fare nessuna scelta ma ad optare per una logica di sussistenza, che non produce nessuna sfida competitiva. Chi opta per questa condizione non deve emigrare, non deve confrontarsi con le condizioni di merito nella carriera lavorativa, e per di più ha anche intorno a sé un ambiente sociale che valuta molto bene la sua posizione. Proprio dal punto di vista della reputazione, chi va verso il mercato protetto e verso il pubblico, in molte parti d’Italia, è visto ancora meglio di chi va verso il privato, verso il rischio. La rendita conserva ancora una sua nobiltà, mentre il profitto ha un profilo non ancora percepito nella cultura diffusa del nostro Paese».

Problema legato a determinate condizioni e abitudini sociali in certe parti d’Italia, ma che vede la propria origine e il continuo alimento anche all’interno del sistema scolastico: «la cultura del rischio è perfettamente assente nel nostro sistema formativo: rischiare è qualcosa che sta più sull’aspetto dell’avventura, quindi legato a valori negativi come la spericolatezza, l’irregolarità, l’eccentricità. Il rischio invece è una componente fondamentale della cultura di un’economia moderna, ed è connaturato ad ogni singola fase; mentre, come emerge ancora da alcuni dati del rapporto su sussidiarietà ed educazione, sembra quasi che noi disegniamo una società priva di profili di rischio, in cui, anzi, l’idea di rischiare ci porta alla periferia del contesto sociale». Accanto a tutto questo, naturalmente, non mancano però «straordinari esempi di imprese e di forze intellettuali che, invece, lottano tutti i giorni con la globalità e con le sfide della competizione».

Sussidiarietà ed educazione sono allora i due cardini intorno ai quali creare i presupposti per un cambiamento e per lo sviluppo di una società responsabile; ma in questo De Bortoli non nasconde le difficoltà e la lunghezza del cammino ancora da percorrere. In merito al fatto, per esempio, che il 61% degli interpellati nel rapporto ritenga l’educazione la prima emergenza nazionale, De Bortoli parla di «una percentuale francamente ancora un po’ bassa. Significa che non siamo riusciti (e questo dipende anche dal sistema dei media) a far capire in maniera compiuta e diffusa che il tema della formazione del capitale umano e quindi dell’educazione è un’emergenza totale».

Allo stesso modo, dice De Bortoli, anche la sussidiarietà «rimane ancora un mistero: in linea di principio sono tutti d’accordo, poi nella prassi le cose cambiano. La stessa Europa, che ha fatto del principio di sussidiarietà uno dei propri capisaldi, è poi un’Europa che si chiude, dove la mano statale tende generalmente ad aumentare. Se si pensa alle attività economiche e all’esplodere di tutta una serie di attività pubbliche locali, si direbbe che stiamo vivendo una stagione nella quale vige l’idea che il pubblico debba fare al posto del privato. C’è ancora, in questo, una forte tossina ideologica».

Tossina che va ad avvelenare il modo con cui si affrontano diversi aspetti della vita sociale. Nell’ambito del lavoro, per esempio, molti ancora ritengono che «se si va verso il privato, si va verso una maggiore precarietà, mentre se si va verso il pubblico si va verso una maggiore stabilità e solidarietà. Questo non è vero: se noi avessimo più stabilità, ma molti meno occupati, ci sarebbe allora da domandarsi se non sia il caso, proprio in chiave solidale, di avere meno stabilità e più occupati».

Così come scarsamente sussidiaria è l’ottica con cui si guarda al sistema scolastico, in cui le famiglie preferiscono stare «nell’alveo della sicurezza di un sistema come quello pubblico, di cui certamente si conoscono i limiti, ma che tutto sommato è più familiare. Questo è indizio di famiglie poco responsabilizzate e che, come spesso possiamo constatare, tendono a scaricare sulla scuola le proprie inefficacie».

Concludendo, De Bortoli identifica, come tema principale, «il fatto di riscoprire il valore centrale della persona che porta la propria responsabilità, e soprattutto di riscoprire nella persona un cittadino che deve formarsi e deve formare non solo se stesso, ma anche coloro che non sono ancora cittadini italiani e che verranno in contatto con lui».


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