Il subbuglio negli atenei è stato, la settimana scorsa, più virtuale che reale; mentre i giornali si prodigavano in titoloni su presunti blocchi dell’attività accademica, la vita universitaria procedeva in modo ordinario. Ciononostante, fatta la debita tara sulle esagerazioni mediatiche, il clima di tensione comunque rimane, e non è detto che nei prossimi giorni non possa degenerare. Ancora più urgente è dunque chiarire i termini reali delle problematiche – anche politiche – legate al tema università, per evitare che il dibattito sia dominato dai soli slogan ideologici.
Un’urgenza di chiarezza che viene sottolineata anche da Nicola Rossi, senatore del Pd e già a suo tempo promotore di un disegno di legge sull’università. E sono soprattutto gli studenti che dovrebbero, secondo Rossi, evitare confusioni per non cadere nella trappola di chi vuole, a loro discapito, mantenere inalterato il clima di «uniformità» che domina il mondo accademico italiano.
Senatore Rossi, chi protesta in questi giorni contro il governo sul tema università punta il dito, tra le altre cose, anche sulla norma che prevede la possibile trasformazione delle università in fondazioni. Viene vista come una forma di privatizzazione: è così?
La prima cosa da fare è chiarire a chi protesta che con quella norma non si vuole assolutamente privatizzare l’università, ma si vuole solo ottenere un risultato che è comune a tutti i sistemi universitari occidentali: avere cioè, accanto all’università pubblica che conservi le caratteristiche attuali, anche un’università che si possa dare regole di comportamento e di modalità di organizzazione completamente diverse, che possa cioè fissare le tasse universitarie e che possa organizzare autonomamente i suoi percorsi didattici. In questo modo si può permettere a tutti i cittadini di valutare che cosa è meglio e che cosa è peggio. Questo è l’obiettivo vero che si vuole raggiungere. E il tutto in via volontaria: se non ci sarà nessuna università che vorrà trasformarsi in fondazione, non ce ne sarà nessuna che lo farà. È veramente straordinario che si protesti contro qualcosa che è interamente lasciato alla volontà dei senati accademici.
Ci sono però anche critiche in senso contrario, da parte di chi dice che quella è un po’ una norma spot inserita in finanziaria, che difficilmente potrà avere effetti concerti: cosa fare per portarla a compimento?
In effetti il governo ora deve completare quella norma, perché per come è stata concepita ha ben poco valore. Quella norma, a mio avviso, sta in piedi solo se alle università che scelgono di trasformarsi in fondazioni viene assegnata una disciplina, una responsabilità. In particolar modo bisognerebbe – nel solo caso delle università che vogliano diventare fondazioni – trasformare il finanziamento, che oggi va agli stipendi dei docenti delle università, in borse di studio per gli studenti. Questo è il passaggio fondamentale; se non si attua una misura di questo genere, quella norma rimane solo una tutela per i docenti peggiori. Introdurre un criterio di responsabilità, insito nella possibilità stessa di decidere di trasformarsi in fondazioni e di avere regole diverse, crea anche una responsabilità diversa nei confronti degli studenti, perché bisogna attrarli e convincerli di poter avere un’offerta migliore. Solo allora io credo che la norma possa essere positiva.
Concretamente quale percorso in parlamento bisognerà seguire per fare questi aggiustamenti?
Per fare questo concretamente sarebbe innanzitutto necessario che il ministro Gelmini si rendesse conto che la norma così come è stata approvata non funziona e avviasse un serio dibattito in parlamento. Personalmente posso dire di aver avanzato io stesso, in Commissione bilancio al Senato, la proposta di portare a compimento quella norma, e la maggioranza era assolutamente d’accordo con me. Se solo il governo avesse capito che era necessario fare questo passaggio avremmo già potuto approvare una serie di importanti modifiche.
Il centrosinistra la segue su questo?
Io dico che su questa questione specifica il centrosinistra ha una straordinaria possibilità, quella cioè di dare finalmente a questo Paese un programma di borse di studio per i meritevoli e non abbienti, programma che l’Italia francamente non ha mia avuto. E in questo modo si arriverebbe a rispettare veramente e a fondo il dettato costituzionale.
Altro punto essenziale della protesta sono i tagli: la situazione è veramente così drammatica?
La questione dei tagli, a mio avviso, fa il paio con un’altra questione. Io credo che l’enfasi che viene posta, in un senso o nell’altro, solo ed esclusivamente su quanti soldi vengono dati all’università sia veramente un’enfasi mal posta. Non nel senso che l’università italiana sia ricchissima, perché non lo è e lo sappiamo bene; ma nel senso che se non si cambiano gli incentivi interni all’università, qualunque quantità di soldi venga data sarà sempre spesa male. Il problema delle risorse è giusto porlo; ma va posto dopo, non prima della questione degli incentivi. Se non muta ciò che conviene fare agli studenti e ai docenti, quale che sia la quantità di risorse che noi riversiamo sull’università, il risultato sarà sempre lo stesso. Chi protesta contro i tagli, dunque, dovrebbe prima proporre di cambiare gli incentivi che oggi guidano il mondo l’università.
Cambiare l’università introducendo concorrenza tra gli atenei implica di affrontare altri due temi fondamentali: l’abolizione del valore legale del titolo di studio e la valutazione. Come procedere su questa strada?
L’abolizione del valore legale del titolo di studio fa parte di un tema più ampio, che è quello della comparazione. Oggi, attraverso l’abolizione del valore legale della laurea, noi chiediamo solamente di poter comparare, perché con il valore legale questo ci viene impedito. Mi rendo perfettamente conto delle ragioni di chi dice che non c’è scritta da nessuna parte la questione del valore legale del titolo di studio, e che quindi è inutile chiederne l’abolizione. Formalmente è un’affermazione corretta, ma assai poco interessante. Il problema vero è quello di dare la possibilità di fare una vera comparazione, e per poter comparare è indispensabile avere modelli diversi. Non mi basta sapere che la tale università ha questi professori, mentre l’altra ne ha altri meno importanti; per comparare io voglio modelli organizzativi diversi, voglio capire come fa un’università a definire i percorsi didattici, come premia al suo interno la ricerca, come fissa le tasse scolastiche, se ha o meno il numero chiuso. Queste sono le cose che voglio comparare. Avere una reale comparazione è l’inizio di tutto.
Perché ci sono così tanti freni su questo?
Io capisco perfettamente che quello che non si vuole è proprio la comparazione, e mi dispiace che gli studenti, opponendosi a questo, si facciano strumento di posizioni che esprimono soprattutto la parte meno dinamica dei nostri docenti. Il mondo universitario italiano, che è il mondo dell’uniformità, è il paradiso dei docenti peggiori. Prima o poi gli studenti questo lo devono capire.