Si scalda sempre più il clima dello scontro sul tema scuola, tra occupazioni, manifestazioni e minacce contrapposte; e più i toni si accendono, più si smarriscono i contenuti reali del dibattito. Ma la riduzione della scuola a puro campo di battaglia politico-sindacale è cosa a cui, purtroppo, siamo quasi abituati, tanto è divenuto ormai abituale e ripetitivo, quasi come un rito, l’autunno caldo (o tiepido o caldissimo) delle occupazione e delle proteste.



Ma la realtà della scuola non è solo questa. C’è anche chi lavora costantemente, con pazienza e profondità di contenuti, per creare intorno a questo tema un dibattito culturale serio e utile, fatto di studi, proposte e raffronti internazionali, di cui il nostro Paese ha estremo bisogno. Una realtà che si distingue in questo lavoro culturale è sicuramente l’associazione TreeLLLe, così denominata dall’espressione inglese Life Long Learning con cui si indica la formazione permanente. Attilio Oliva, presidente di TreeLLLe, spiega le sue ricette per ridare slancio al nostro sistema scolastico, e per avere una bussola con cui muoversi nel clima confuso di questi giorni.



Dottor Oliva, partiamo innanzitutto dalle proteste dei sindacati contro il decreto Gelmini, che sfoceranno nello sciopero generale del 30 ottobre. Qual è il suo giudizio?

C’è una delle ragioni del sindacato che è a mio avviso condivisibile: gli eventuali risparmi previsti dal governo con la razionalizzazione della spesa scolastica devono essere interamente reinvestiti nello stesso sistema, e non andare nel calderone della spesa pubblica. Bisogna secondo me porsi la domanda: è bene ridurre la spesa per la scuola? Certo, considerando il corretto indice della spesa per studente (e non la percentuale del Pil, che può confondere), la nostra spesa è sopra la media europea; e questo potrebbe deporre a favore di chi dice che la spesa si possa ridurre. Invece, in considerazione dell’arretratezza culturale del nostro paese, io ritengo che non sia un bene che la spesa per studente venga ridotta. Siamo, insieme a Spagna e Portogallo, ai livelli più alti in termini di abbandoni scolastici, e in generale abbiamo un livello di capitale umano più modesto rispetto a quello degli altri paesi. Se dunque il nostro Paese ha questo ritardo, non è bene che gli investimenti in scuola vengano ridotti. È bene utilizzare al meglio le risorse razionalizzandole, ma non portarle via e utilizzarle in altro modo.



Su cosa invece secondo lei i sindacati sbagliano?

Per il resto bisogna considerare il fatto che il sistema scolastico italiano è un sistema centralistico dominato dalla burocrazia ministeriale e dai sindacati nazionali, che hanno un potere eccessivo e che sono penetrati, attraverso la leva dei contratti, in tutti i minimi dettagli gestionali dell’organizzazione delle scuole. È in questo modo che i sindacati hanno acquisito di fatto un potere di veto o di freno rispetto a qualunque iniziativa in direzione di una maggiore efficienza e miglior organizzazione delle singole scuole. Il risultato è un enorme spreco di risorse, che è sotto gli occhi di tutti: un numero spropositato di personale ATA, imparagonabile rispetto a quello degli altri paesi europei; un abnorme numero di insegnanti, come tutti gli indicatori internazionali dimostrano ampiamente. Questa esplosione di numero di addetti è figlia di un eccesso di potere del sindacato.

Visto che in questi giorni si è parlato tanto di ritorno al maestro unico, c’è anche chi ha ricordato che la riforma del modulo fu introdotta per aumentare i posti di lavoro: è così?

È addirittura scontato che la riforma del ’90 sia stata fatta per motivi occupazionali, cioè per sistemare gli insegnanti già occupati e in attesa di occupazione, rispetto al numero di studenti che stava drammaticamente diminuendo per lo sboom demografico. D’altro canto sappiamo tutti che questa invenzione del modulo è un caso tutto italiano, e non si ritrova negli altri paesi d’Europa. Quindi è una discussione talmente evidente da risultare perfino oziosa.

Oltre ai sindacati, chi altri ha colpe per l’attuale situazione in cui versa il nostro sistema scolastico?

Ciò che è mancato di più in questi ultimi vent’anni è il momento politico. Al di là delle responsabilità dei sindacati, di cui si è detto, il vero problema è che è mancata una controparte politica forte ai tavoli della contrattazione sindacale. Quando i ministri che si succedono non costituisicono una controparte, la parte sindacale diventa prevalente e dominante, e porta avanti i suoi interessi, piccoli e piccolissimi. Questo è ciò che distrugge il sistema. Il vero rimbrotto è dunque verso il ceto politico che non si è mai posto a difesa né del contenimento dei costi, né della qualità dell’insegnamento per gli studenti, il cui benessere dovrebbe essere al centro dell’organizzazione del sistema.

Perché proprio sulla scuola la politica italiana ha mostrato tutta la sua debolezza?

Per un motivo molto semplice: ci si trova ad avere a che fare con un sistema costituito da circa 1 milione e 300 mila persone, tra personale ATA e insegnanti ordinari e precari, tutti riuniti intorno ad un unico contratto discusso a livello centrale. Il tutto con un potere fortissimo legato alla possibile interruzione del servizio, che creerebbe un enorme disagio sociale, soprattutto per le famiglie. Su un unico contratto abbiamo concentrato un terzo del pubblico impiego, e quindi intorno a questo punto si gioca una fondamentale partita di potere. Ecco perché la politica è debolissima quando tratta a questo livello, e il sindacato occupa tutto quello che può occupare.

Come uscire da questo centralismo che blocca la scuola italiana?

Per uscire dal centralismo costoso e inefficiente di cui siamo vittime si deve procedere nella direzione del decentramento amministrativo e gestionale. Questo, in parte, può passare attraverso un federalismo ben gestito, con regioni che potrebbero occuparsi principalmente di programmazione dell’offerta sul territorio di loro competenza. Ma il punto fondamentale è che l’autonomia deve essere attribuita alle singole scuole: una cosa prevista dalla Costituzione, ma che non è mai stata effettuata se non per gli aspetti relativi alla didattica. Le scuole non hanno un’autonomia finanziaria, perché i soldi che amministrano sono poco più del 5 % del totale dei costi; non hanno l’autonomia di scegliersi gli insegnanti; non hanno autonomia organizzativa, perché bloccati dai contratti nazionali.

Ma oltre a questo ci vuole anche un altro elemento.

Quale?

L’autonomia non è di per sé un toccasana se non c’è parallelamente un processo di valutazione e controllo esterno. Altrimenti succede quello che è accaduto con le università, dove l’autonomia pretesa diventa anarchia: ognuno spende quel che vuole e poi aspetta che lo Stato paghi e tappi i buchi. Ci vuole dunque un Invalsi forte, e un forte sistema di ispezioni scolastiche, come fanno inglesi, danesi e molti altri. Questo può mettere in moto virtuosi meccanismi di emulazione. Quindi tutte le proposte che vanno in direzione di una forte autonomia scolastica, non solo didattica ma anche finanziaria e organizzativa, di un rinnovo degli organi collegiali della scuola e della dirigenza, che abbiano effettivamente i poteri di modificare il modello gestionale, è la strada maestra, ma deve essere concepita insieme a un serio sistema di valutazione.

Autonomia si collega, oltre al tema della valutazione, anche al tema della parità: che importanza ha secondo lei questo tema?

In Italia purtroppo questo tema è stato vissuto come scontro tra scuola di Stato e scuole religiose, e ha trovato grandi elementi di pregiudizio ideologico. Elementi di confronto, invece, sono salutari: come diceva Einaudi, qualunque sistema, anche quello scolastico, se non ha elementi di confronto non migliora. Le scuole religiose così come le scuole imprenditoriali sono elementi utili per stimolare confronti e emulazioni, di cui il nostro sistema è tendenzialmente privo.

Eppure in finanziaria pare che si voglia tagliare i fondi alle paritarie, addirittura del 20%: cosa ne pensa?

Non trovo assolutamente ragionevole che si facciano tagli di questo genere, perché significa procedere verso la statalizzazione totale del sistema. Il sistema monopolistico iperstatalizzato, come ho detto prima, è proprio la cosa da combattere, e sarebbe dunque un grave errore andare ad uccidere anche quei pochi elementi non statali, che già si aggirano su una cifra marginale del 5-6% del sistema. Bisognerebbe al contrario alimentare le migliori esperienze della scuola paritaria. Certo, per fare questo bisogna anche combattere quelle scuole che lavorano male: i ben noti “diplomifici” devono essere combattuti con forza proprio per rendere sempre più credibili le scuole paritarie e la parità in generale.

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