Esiste una qualche connessione tra la crisi finanziaria che sta tenendo il mondo intero con il fiato sospeso e lo stato di agitazione verso cui si sta avviando l’Università italiana, a seguito dei tagli decisi dal Governo? Un ragionevole collegamento non può certo essere rintracciato sul piano delle relazioni di causa-effetto: nessuno può essere così scellerato da sostenere che la crisi dei mercati finanziari mondiali sia la causa diretta dei tagli al sistema universitario decisi da Tremonti.
Tuttavia, una relazione può essere forse individuata nei presupposti politici, sociali e culturali da cui entrambe le crisi derivano. Proviamo allora a fare l’esercizio.
La presidenza Bush, soprattutto la seconda, ha cercato fortuna in politica interna attraverso lo slogan “una casa per ogni americano”, illudendosi che il mercato immobiliare e finanziario fossero in grado di garantire, autoregolandosi nella crescita, l’ascensore sociale per uno strato consistente della popolazione. Nella realtà la politica ha soffiato su un mercato speculativo in cui broker immobiliari hanno potuto sottoscrivere mutui senza garanzie e gli operatori finanziari hanno potuto costruire prodotti sofisticati per trasferire rischi elevati con rendite attese da capogiro.
Nel nostro piccolo, sono ormai vent’anni che la politica italiana, di destra e di sinistra, promette una laurea a tutti i giovani italiani, prima inaugurando università di quartiere, poi inventando il cosiddetto “3+2”, al dichiarato scopo di aumentare la produttività del sistema universitario a costo zero per lo Stato. Similmente alla crisi finanziaria americana, anche in questo caso abbiamo assistito ad un fenomeno che potremmo dire speculativo: le università hanno trovato spazio per gemmarsi, per creare sedi decentrate, per moltiplicare i corsi di laurea (attualmente circa 5300!), grazie ad un mercato della formazione universitaria drogato da tasse ai minimi.
Se in America hanno fatto leva sull’ideologia liberista che invoca la capacità di autoregolazione del mercato, nelle Università italiane ci si è nascosti dietro un uso troppo spesso equivoco del concetto di autonomia. Là hanno fatto lievitare i debiti, qui le cattedre. E si badi bene che l’argomento dell’allineamento a standard europei nel rapporto studenti/docenti non regge, visto che il sistema universitario italiano è largamente sotto-finanziato rispetto agli stessi standard. Infatti, tutto il budget delle università italiane è ben presto finito in stipendi (da fame).
Anche i cittadini, certo, hanno fatto la loro parte: negli Stati Uniti indebitandosi al di là di ogni ragionevole capacità di reddito, qui in Italia continuando a mandare i figli in università sovraffollate con una didattica sempre più scadente, avendo come unica certezza il valore legale di un pezzo di carta.
Bene (si fa per dire). Se ritenete che il parallelo possa reggere, proviamo adesso a leggere i fatti delle ultime settimane nella stessa chiave.
Prima osservazione: gli universitari che manifestano in questi giorni, studenti e docenti, sono paragonabili a cittadini americani che protestassero perché gli viene impedito di sottoscrivere mutui che non sono in grado di ripagare, o operatori di borsa che si mobilitassero contro il blocco della collocazione sul mercato di prodotti finanziari “spazzatura”.
Seconda e ultima osservazione: i Governi di tutto il mondo, quello italiano incluso ed in prima fila, si sono mobilitati con programmi straordinari per salvare alcune delle maggiori banche da una più che probabile bancarotta, riconoscendo il valore strategico che il settore del credito riveste per l’economia di ogni paese.
Volete dire che l’Università italiana non ha la stessa rilevanza strategica per il futuro del nostro Paese e che molte delle sue istituzioni non meritano quindi di essere salvate?
Se per entrambe le crisi è evidente che la riforma necessaria non è innanzitutto quella delle regole, ma della cultura in cui sono nate, ciò che non è ancora chiaro nella seconda è chi avrà il coraggio di decidere cosa salvare.
(Paolo Trucco)