Professor Ichino, che cosa pensa della possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni, come previsto dalla legge 133?

La trasformazione degli atenei in fondazioni si colloca nel solco delle “privatizzazioni” degli ultimi quindici anni. Occorre chiedersi, però, a che cosa davvero serva “privatizzare” un ente pubblico, se la sua attività resta rigidamente regolata dalla legge e controllata dallo Stato in tutti i suoi aspetti principali.



Quali sono, allora, secondo lei i passi da fare per dare piena attuazione a questa norma? Secondo quali linee bisogna muoversi per reimpostare la governance dei nostri atenei?

Per prima cosa, se si volesse privatizzare davvero, occorrerebbe eliminare radicalmente il valore legale della laurea, liberalizzare il reclutamento dei docenti e dei ricercatori, liberalizzare i piani di studio. Il problema è che questo non è possibile finché le attuali Università pubbliche saranno finanziate principalmente dallo Stato. Anche se si introduce il sistema di finanziamento attraverso i vouchers, occorre pur sempre istituire un sistema di accreditamento, che presuppone dei criteri selettivi e quindi delle regole precise di funzionamento.



È giusto secondo lei seguire il modello anglosassone, con la partecipazione di stakeholders esterni nell’amministrazione strategica delle università, separando l’amministrazione dalla didattica?

Questa mi pare comunque una cosa buona; ma per attuarla la “privatizzazione” non è necessaria.

Le critiche più forti al governo riguardano i pesanti tagli. Non ritiene che il comportamento irresponsabile di molti atenei negli ultimi anni meritasse una presa di posizione forte da parte della politica?

Certo; ma è proprio quella che è mancata con questi tagli, che sono stati fatti in modo indiscriminato: per l’ennesima volta il Governo ha mostrato di non saper distinguere le strutture efficienti e meritevoli di un investimento da quelle inefficienti, chi produce da chi spreca.



Si invocano tagli “intelligenti”: come fare concretamente?

Quando, nel 2007, il ministro del Bilancio Padoa Schioppa si accordò con il ministro dell’Università Mussi per la distribuzione “intelligente” di 500 milioni alle strutture universitarie, questa venne vincolata alle valutazioni di produttività della ricerca e della didattica operate rispettivamente dal CIVR (Comitato italiano per la valutazione della ricerca) e dal CNVSU (Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario). Poi di fatto le cose andarono diversamente; ma quegli stessi criteri avrebbero potuto essere utilizzati oggi per evitare i tagli indiscriminati.

Come giudica il clima di tensione che in questi giorni attraversa molte università? Si tratta del normale diritto di manifestazione, o in alcuni casi si sta superando il segno?

Decenni di proteste degli studenti condotte prevalentemente in modo sconclusionato e opportunistico hanno pesantemente squalificato le loro proteste attuali agli occhi dell’opinione pubblica. Neanche i sindacati dei docenti hanno le carte in regola per protestare contro i tagli indiscriminati, essendosi opposti troppo a lungo in passato contro valutazione e misurazione nel settore. Ma di motivi di protesta – e assai seri – ce ne sarebbero molti e gravi. Perché il Governo, invece di colpire alla cieca, non usa tutto il decisionismo e la durezza di cui è capace per incidere profondamente, senza pietà, nelle situazioni di rendita parassitaria evidente, di cui l’Università italiana è piena?

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