Proviene dall’esperienza universitaria passata come coordinatore dell’Udu e ora è responsabile nazionale delle politiche giovanili per la CGIL. Daniele Giordano non può certo essere tacciato di simpatia nei confronti dell’attuale governo e il suo giudizio sui tagli imposti dal decreto 133 è chiaro. Ma altrettanto chiara è la presa di distanza da certe forme di protesta che si limitano a una facile lamentela senza portare avanti reali controproposte nonché da gran parte della classe docente, spesso propensa a preoccuparsi di mantenere l’attuale status quo anziché a favorire riforme davvero efficaci.
Dottor Giordano, è stato appena approvato un decreto che prevede molti tagli all’università, come giudica le scelte del ministro Gelmini?
Ho alle mie spalle un lungo percorso di rappresentanza come coordinatore dell’Udu e poi presso il CNSU dove ho lavorato al fianco di Obiettivo Studenti. Ovviamente non posso condividere i tagli indiscriminati previsti dal decreto 133. Quand’ero al CNSU mi ricordo che il mio gruppo insieme a quasi tutte le rappresentanze presentò diverse mozioni condivise sul metodo impiegato per i tagli. E questo sia sotto la Moratti sia sotto Mussi come ministri. Si è sempre palesato uno scenario di ministri che effettuavano tagli indiscriminati senza dare una valutazione di come le università spendevano le proprie risorse. Da questo punto di vista non è possibile condividere alcuna scelta fatta da qualsiasi governo di operare con una manovra economica sull’università senza mettere in campo anche un progetto di riforma e un progetto di valutazione del sistema universitario. Il rischio in gioco è quello di penalizzare sia le università sia gli studenti, perché insieme al taglio dei finanziamenti si prevede un drastico taglio dei diritti allo studio.
D’altra parte non condivido assolutamente l’idea dei blocchi a oltranza della didattica, anche perché chi manifesta non dovrebbe avere il minimo interesse di difendere gli attuali baroni dell’ateneo.
Come mai accusa i cosiddetti “baroni” di avere una così grossa responsabilità per quel che riguarda lo stato di cattiva salute dei nostri atenei?
I baroni sono fra i più grossi responsabili del fallimento della riforma universitaria. Le manifestazioni in atto avrebbero un senso se criticassero la scelta del taglio indiscriminato, ma promuovessero anche una proposta di università diversa. Perché è chiaro a tutti che oggi l’università non funziona, che la laurea triennale non è spendibile e che quel percorso di riforma che ha passato diversi governi non ha poi portato la nostra università a livelli competitivi con l’Europa e con il resto del mondo. Se dunque rappresenta soltanto un movimento di protesta per la paura di una condizione di precarietà durante gli studi, ma non genera poi anche una vera proposta che vada in controtendenza rispetto a molte delle richieste formulate dai docenti, il suo valore è nullo.
I docenti universitari spesso si sono contrapposti a qualunque sorta di iniziativa sulla riforma del sistema di valutazione o sull’ingresso alla carriera accademica. Quindi, come dicevo, non si può giustificare l’azione di tagli indiscriminata, ma nemmeno pensare che i docenti siano le figure da difendere.
L’altro giorno è uscito un articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera che annunciava un imminente e vasto numero di nuove assunzioni in ambito accademico. Come commenta questa notizia?
Se noi concentriamo il problema esclusivamente come una questione di organici, di sovraorganico o sottorganico, non affrontiamo il problema autentico.
Perché il vero punto che dovrebbero affrontare politica e intellettuali riguarda l’autonomia delle università. Che cos’è oggi l’autonomia delle università? Chi saprebbe definirla? Anche nella scelta di piccole assunzioni di concorsi accademici se non c’è una vera riflessione sul concetto di indipendenza delle accademie non si va avanti. A parole tutti sostengono l’autonomia, ma poi nessuno è in grado di declinare che cosa sia. Se con questa si intende una gestione indiscriminata per cui ogni ateneo decide come spendere le proprie risorse senza nessun criterio che valuti come vengano impiegate, è evidente che poi si generino i buchi di bilancio causati dalle varie “parentopoli” accademiche.
Parlare di assunzione nei prossimi mesi non è assolutamente una risposta al problema delle università, nemmeno per calmare la protesta. Sarebbe sciocco pensare che tranquillizzare quei gruppi di docenti che stanno in piazza con gli studenti sia il problema da risolvere.
Molti paragonano l’attuale movimento di proteste al ’68. Non le sembra un metodo un po’ superato per portare avanti le proprie idee democraticamente?
Non si possono fare paragoni, non è una rivoluzione culturale come quella di molti studenti contro i docenti o intenzionati a rompere uno schema costituito. Ma è piuttosto la manifestazione di un sentimento trasversale nella società. Da tutte le parti ci si domanda come si possa salvare l’economia di un Paese se non si investe nel sistema formativo. Le proteste di piazza, da questo punto di vista, non contemplano tutto il malcontento e rischiano di degenerare e di essere fatte da minoranza e non da una maggioranza. Io penso che chi svolge delle lezioni vere, e ripeto vere, in piazza con gli studenti per far capire che c’è un vero malessere dentro il sistema universitario, per questi tagli e per gli altri problemi detti prima, può rappresentare una forma di opposizione anche condivisibile. Chi invece prova con 30 persone a bloccare l’attività di tutto un ateneo compie solo un gesto inutile o addirittura dannoso. Perché ogni volta che è una minoranza a bloccare una maggioranza si genera un’azione controproducente, anche alle idee giuste portate avanti.
Aggiungo però che in Italia sono pochi, quasi nessuno, gli atenei veramente occupati. Se si va veramente a vedere, a parte pochi casi a Milano e a Roma, non ci sono in atto autentiche occupazioni.
Esistono dei criteri realmente efficaci per impedire che vengano effettuati tagli indiscriminati?
Siamo in una situazione di grave difficoltà per un semplice motivo. Più volte gli studenti del CNSU hanno chiesto ai vari ministri di fare un’indagine valutativa del sistema universitario di capire qual è lo stato dell’università. Questo perché in Italia continuiamo a riformarla, a cambiarla, a fare interventi economici, senza mai aver fatto una valutazione vera di questo sistema. Io capisco che ci siano difficoltà, ma se il governo desse un segnale immediato di voler aprire una valutazione seria, questo potrebbe davvero essere utile. Il vecchio governo aveva proposto l’ANVUR, agenzia di valutazione sull’università e la ricerca. Era un osservatorio per certi versi anche criticabile, però se si facesse partire un’iniziativa di questo tipo che coinvolga le università e anche i docenti stranieri ciò potrebbe davvero rappresentare un modo per valutare le qualità della didattica, della ricerca e anche per monitorare il livello di preparazione degli studenti.
Quale scenario si prospetta, secondo lei, per il futuro accademico?
Ci sarebbero molte iniziative da portare avanti, ma se le proteste saranno in grado di trasformarsi in proposte su come cambiare, ci sarà speranza che in questo mare di tumulti passi qualcosa di concreto se invece il clima rimarrà così com’è, scemerà anche la voglia di dialogare.
Noi abbiamo già visto nel 2005 un movimento che provava a dire alcune cose diverse dalla massa che protestava, ma le idee di quel movimento non ce l’hanno fatta a passare, è esclusivamente emersa la voglia di protestare ed è tutto finito. Occorre dunque che gli studenti si assumano la responsabilità di promuovere delle vere alternative. Penso, in particolar modo alla riforma del sistema universitario e al diritto allo studio.
Sentiamo tutti parlare di merito, ma nel nostro sistema non esiste. E gli studenti sono costretti o a immigrare al nord dal sud per ricevere una borsa di studio o a rivolgersi ai cosiddetti prestiti fiduciari che sono stati attivati in alcune realtà, evidentemente senza però alcun sistema di diritto allo studio.
Si devono poi ridurre le sedi accademiche. È impensabile avere 200 sedi e 80 atenei. Bisogna però farlo sapendo di dover garantire la mobilità. Per cui, se uno studente vuole andare a studiare al Politecnico di Milano da Catania o da Venezia, deve poterlo fare se ha le condizioni di merito e di reddito, però con la certezza che esista un diritto allo studio che lo garantisce.