Con il suo volume “L’università truccata” ha gettato un grosso sasso nello stagno del dibattito pubblico sul tema della qualità dei nostri atenei; ora Roberto Perotti, docente di Economia politica alla Bocconi, vede maturare alcuni frutti positivi di questo dibattito. Il decreto appena approvato dal Consiglio dei ministri, infatti, inizia a intervenire su alcuni degli aspetti più negativi del nostro sistema universitario, ben evidenziati nel libro di Perotti.



Professore, con questo decreto inizieremo a vedere un’università un po’ meno “truccata”?

Difficile dire questo; quel che è certo è che ci sono cose apprezzabili. Il provvedimento forse più discusso, che riguarda il sorteggio nelle commissioni esaminatrici, è secondo me una decisione positiva. Naturalmente ci sono pro e contro, ma è comunque una cosa utile, per dare un segnale contro i concorsi truccati in partenza. Un buon provvedimento, sebbene non sia la soluzione di tutti i problemi. D’altronde c’erano anche pochi giorni a disposizione, e si è dunque fatta una cosa  effettivamente urgente.



Altro punto fondamentale è la differenziazione tra atenei virtuosi e non, sulla base della quale riformulare tagli e blocco del turn over previsti dalla legge 133: cosa ne pensa?

Anche queste decisioni vanno bene, e sono un primo passo nella giusta direzione. La vera differenziazione poi, oltre che sulla questione della buna gestione delle risorse, deve essere fatta sulla qualità degli atenei, e qui c’è ancora molta strada da fare.

Cioè?

Per ora di dice solo che si destina il 7% del finanziamento sulla base della qualità degli atenei, e c’è la prospettiva di portarlo al 30% per fine legislatura. Il problema, come sempre, è che il diavolo si nasconde nei dettagli: che criteri si useranno? Il rischio da evitare è quello di puntare su criteri come quelli usati dall’Anvur del ministro Mussi, che erano criteri molto fumosi, come il “contributo al contesto socio-economico del territorio”, e altre sciocchezze del genere. Quindi è su questo punto che ci si dovrà preparare all’assalto alla diligenza, con i rettori che vorranno far passare criteri come quelli menzionati. Invece, bisogna tenere la barra su un elemento irrinunciabile: l’unico criterio minimamente oggettivo è quello della qualità della ricerca. Tutto il resto, come si suol dire, è “fuffa”, che serve solo a diluire questo principio. Su questo bisognerà stare molto attenti.



Per quanto riguarda invece la possibilità, prevista dalla 133, che gli atenei si trasformino in fondazioni, cosa ritiene si debba fare?

Secondo me questo, per il momento, è un problema abbastanza secondario, su cui non punterei molto; le fondazioni, infatti, nel contesto attuale non decollerebbero. Si tratta di modelli organizzativi pensati perché i privati potessero dare soldi e dedurli dal reddito; ma nel contesto attuale nessun privato darà soldi a un’università pubblica. Non essendoci nessun controllo sulla qualità dell’uso di questi soldi, sarebbe un po’ come buttarli. Quindi nessun ateneo utilizzerà questo strumento; e oltretutto si rischia di fare quello che è successo con le fondazioni bancarie, cioè creare un altro livello di burocrazia, cioè una mangiatoia per politici e notabili locali.

A parte certe situazione di tensione, e alcune contestazioni un po’ sopra le righe, non le pare che il dibattito sul tema università, a partire anche dal suo volume “L’università truccata”, si stia finalmente indirizzando sui punti essenziali?

Sì, ho l’impressione che la situazione da questo punto di vista stia effettivamente migliorando. Fino all’anno scorso si parlava solo di problemi parziali, cioè cambiare questa o quella regoletta del concorso; come se servisse a qualcosa il solo fatto di eliminare la doppia idoneità, oppure di avere commissioni nazionali, tutte cose che non avrebbero di fatto cambiato niente. Adesso invece ci si rende finalmente conto che il nucleo del problema è un altro, e ben più complesso: che bisogna dare soldi a chi fa bene, e toglierne a chi fa male. Almeno si comincia a discutere di questo. Quindi concordo sul fatto che il dibattito si sia alzato di livello.

E il criterio su cui distinguere tra chi fa bene e chi fa male rimane, come diceva, la qualità della ricerca.

Di fatto tutti gli altri criteri sono fumosi. È sempre difficile essere oggettivi, ma perlomeno nel campo della ricerca, tanto per fare un esempio, si sa bene quali sono le riviste più prestigiose e quelle meno. Certo, un altro criterio importante su cui si può discutere è quello della didattica, ma è molto difficile comparare in questo ambito. È vero che idealmente bisogna incentivare la buona didattica, ma nella pratica è molto difficile farlo. Ritengo dunque che questo aspetto debba essere lasciato alle singole università, perché farlo a livello centrale è impossibile.

Infine, c’è un ultimo aspetto su cui interviene il decreto: il diritto allo studio.

È anche questo un aspetto molto importante: è l’altra faccia della medaglia del dare più soldi alle università virtuose, perché è un modo ulteriore per togliere il potere dei baroni locali. Se si dà una borsa di studio a uno studente, che lui può utilizzare in qualsiasi università, nel caso in cui il barone locale gli dia un servizio pessimo, lo studente prende e se ne va, utilizzando la sua borsa. Quindi è un primo passo in avanti. Però ho visto delle cifre che spero potranno essere modificate: si parla di 135 milioni per 180 mila studenti, quindi meno di mille euro all’anno per studente. Questo non è sufficiente per prendere e andare da un’altra parte. Quindi la direzione è non solo giusta, ma fondamentale: dare borse di studio direttamente agli studenti, e non alle università. Ma bisogna arrivare a cifre diverse.