Il decreto Gelmini per l’Università, approvato dal Consiglio dei Ministri qualche giorno fa, ripone al centro della questione politica (per fortuna) il tema universitario. I punti rilevanti del decreto Gelmini, a mio parere, sono tre:
Risorse per gli studenti;
Modifica del sistema di finanziamento delle università (FFO, Fondo di Finanziamento Ordinario);
Modifica del sistema dei concorsi.
La prima di queste novità è rivoluzionaria, perché si configura non come un intervento “populista” a favore degli studenti, ma come un vero e proprio “intervento di sistema”. I 135 milioni di euro in più per il fondo di finanziamento delle borse di studio consentirà (se le Regioni faranno il loro dovere) di dare la borsa di studio a tutti gli aventi diritto, cioè a tutti gli studenti “meritevoli e privi di mezzi”. Chi conosce la storia di questo fondo sa che è l’incremento di risorse più forte di sempre (per ricordare, l’ultimo incremento significativo su quel fondo avvenne 3 anni orsono ad opera del ministro Moratti, ed era stato di soli 30 milioni). Questo intervento è rivoluzionario perché “ribalta” la logica del finanziamento del sistema universitario, instillando un (seppur ancor debole) incentivo a meccanismi di mercato, nel senso positivo del termine. Oggi, il “mercato” universitario è molto viziato: uno studente capace, meritevole e privo di mezzi, non può scegliere in quale università andare a studiare, poiché molti di coloro che hanno diritto alla borsa di studio, poi non la ricevono per mancanza di mezzi. Ancor più vergognoso è che questa situazione sia “a macchia di leopardo”, cioè mentre in Lombardia, Piemonte, e altre (poche) Regioni tutti gli studenti idonei ricevono la borsa di studio, cosi non è nella maggior parte delle Regioni. In media, più del 20% degli idonei non riceve la borsa di studio per mancanza di fondi; ed in alcune Regioni del Meridione questa percentuale supera il 50%. Ecco perché un intervento che restituisca libertà di scelta a questi studenti deve essere accolto con grande piacere, e probabilmente l’effetto indotto sarà anche quello di vedere la domanda degli studenti meno vincolata da ragioni economiche. Un ulteriore aspetto: chi aveva sollevato il tema dei tagli a questo fondo nelle scorse settimane? Tutti a preoccuparsi che il taglio dei fondi alle università avrebbe impedito di pagare gli stipendi; nessuno preoccupato per le borse di studio degli studenti. Oltre a queste risorse, sono stati stanziati ulteriori 65 milioni di euro per le residenze universitarie: anche questo è positivo per le ragioni di cui sopra, e perché queste risorse saranno utilizzate per finanziarie progetti già selezionati da una commissione qualificata nei mesi scorsi.
Ultime due riflessioni sul fondo delle borse di studio. Primo, le risorse dovranno essere consolidate anche negli anni a venire (e non essere solo una tantum), altrimenti l’intervento sarà inutile. E secondo, dovranno essere rivisti i criteri di merito scolastico e di reddito con cui si diventa idonei alla borsa di studio: oggi i criteri di merito sono troppo blandi, e quelli di redditi troppo stringenti, soprattutto per il Nord Italia dove il reddito medio delle famiglie è più elevato. Inoltre, l’importo delle borse di studio è ancora troppo basso al fine di consentire una reale libertà di scelta; i prossimi cambiamenti nel settore dovrebbero riguardare anche quest’aspetto.
Il secondo intervento del decreto Gelmini è altrettanto positivo. In pratica, si stabilisce che il 7% del fondo nazionale per le università (FFO) vada ripartito in conformità a criteri di valutazione, e non sulla base della quota “storica” ricevuta. Il principio non è nuovo, è in vigore dal 1998; nel 2003, la quota così ripartita era arrivata al 9.5%. Poi, il processo si è bloccato: negli ultimi anni, le risorse usate in questo modo virtuoso sono state meno dello 0,5%. Ora, per la verità, il provvedimento Gelmini non è un intervento premiante, perché il FFO per l’anno prossimo (2009) è rimasto invariato, per il 2010 si prevede una sua riduzione del 10% circa (è questo il motivo della protesta dei giorni scorsi). Nel 2009, quindi, qualche università perderà risorse a favore di altre; nel 2010, tutte perderanno qualcosa, ma qualcuno più e qualcuno meno. Proprio così: si tratta proprio di quei “tagli selettivi” invocati dalla parte migliore, più efficiente del sistema universitario. La norma conferma dunque che le preoccupazioni espresse sulla legge n. 133/2008 sono state comprese dal Governo, che ha deciso che non s’interverrà in eguale misura su tutti. Nel 2009, a qualcuno sarà dato di più, a qualcuno di meno; nel 2010, a qualcuno sarà tagliato di più, a qualcuno di meno (sempre che i tagli complessivi siano confermati). Ora, l’unico problema rimane definire quali sono le regole che guidano questa valutazione, e farlo in tempi brevi. A tal proposito, mi permetto un consiglio. Esiste già un modello di valutazione, proposto dal CNVSU (il Comitato di Valutazione Nazionale), che incorpora anche i risultati del CIVR (il Comitato di Valutazione della Ricerca); tale modello è stato utilizzato negli ultimi anni – sebbene per una quota di risorse insignificante. Per l’anno prossimo, si usi questo modello (per quanto ancora perfettibile), e si lavori per correggerlo laddove necessario per una nuova applicazione nel 2010.
Infine, il tema dei concorsi. In generale, il provvedimento dice tre cose: che il blocco del turnover è mitigato (dal 20% al 50%), che la maggior parte dei nuovi posti (60%) deve essere destinato a giovani ricercatori, e che le nuove commissioni giudicatrici saranno sorteggiate anziché elette. In linea generale, le intenzioni sono buone, ed è positivo che si sia ridotto il blocco delle assunzioni che, sicuramente, è il punto da criticare dell’azione del Governo fino ad ora.
Negli ultimi tempi, anche guardando all’esperienza internazionale, mi sono convinto che l’unica vera riforma della materia sia l’abolizione dei concorsi, e l’esplicitazione del meccanismo già oggi vigente nei fatti: la cooptazione. Qualunque riforma del sistema dei concorsi non può essere in grado di evitare i comportamenti opportunistici di chi vuole fare entrare, nella carriera accademica, amici, parenti, ecc. E, nonostante quello che pensano autorevoli commentatori nel nostro Paese, non è in teoria per nulla scandaloso che parenti lavorino nella stessa università: nel mio periodo di ricerca nell’ottima Lancaster University (UK), ho lavorato con due docenti che erano marito e moglie. Uno più bravo dell’altra: i loro curriculum parlano da soli. Ma i loro curriculum si possono vedere online; e la qualità della loro didattica e della loro ricerca (come quella di tutti i docenti inglesi) è regolarmente monitorata e valutata. Allora, sarebbe forse meglio abbandonare la strada dei concorsi, ed accettare che in una professione altamente qualificata come quella accademica l’unica soluzione è la cooptazione degli altri professionisti: che, però, devono assumersi le responsabilità delle loro azioni, esplicitando quali sono le loro scelte, cioè chi sono le persone (docenti e ricercatori) su cui puntano, che ritengono migliori e che quindi debbono essere assunti nelle università. Rimarranno gli abusi, probabilmente, e ci saranno ancora facoltà che chiamano solo gli amici degli amici e i parenti dei parenti; ma almeno lo vedranno tutti, e non si potrà far finta di non vedere.
Un’ultima nota. Il tentativo di regolare in modo puntiglioso le regole per le assunzioni (e i relativi blocchi) è, lo dice l’esperienza, fallimentare. Se proprio si vuole tentare, però, si usino nel frattempo gli strumenti che già ci sono. Ad esempio, esiste già oggi una legge che impedisce alle università che spendono più del 90% del FFO in stipendi di assumere altro personale: un vero e proprio blocco delle assunzioni. Negli ultimi anni, però, questo blocco non ha impedito alle università “viziose” di continuare a bandire concorsi e assumere docenti. Il Governo, allora, potrebbe evitare di scrivere nuove norme sui concorsi, e applicare quelle già esistenti che, in questo caso, sono coerenti con gli obiettivi dichiarati dal Governo stesso.